Un film senza fotografia è come una band senza strumenti | Rolling Stone Italia
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Un film senza fotografia è come una band senza strumenti

Nonostante l’Academy abbia fatto marcia indietro sulla consegna di alcuni premi durante la pubblicità, considerare la fotografia come Oscar “tecnico” significa ignorare la natura artistica di un ruolo importante quanto quello del regista


Un film senza fotografia è come una band senza strumenti

Woody Allen e il direttore della fotografia Vittorio Storaro

La domanda è tutt’altro che semplice. Cosa rende un film un bel film? Facciamo un paio di esempi per scaldarci. Apocalypse Now di Francis Ford Coppola è un film realizzato con dovizia di mezzi, c’è il Vietnam, c’è il napalm, ci sono scene di massa, ci sono molti esterni e significativi interni che lo rendono uno dei film di guerra più celebre e celebrato di sempre. Diremmo quindi che è un gran bel film, anche solo perché soddisfa le nostre voglie da ogni angolazione. Ma ci è riuscita anche una pellicola come Il Portiere di Notte di Liliana Cavani, dove non vola un elicottero neanche per finta, che di esterni sul mondo post-bellico in cui si immerge non ne ha nemmeno l’ombra ed è quasi tutto in interni dove a farla da padrone sono solo i volti e i gesti. Di sicuro, e lo dicono in molti non solo noi, Wes Anderson è uno che fa dei gran bei film, e lo dà a vedere ogni volta che si mette dietro la cinepresa, tra inquadrature fatte con una precisione a dir poco geometrica, carrelli e piani sequenza che costringono gli attori ad agire in perfetta sincronia, quasi in una sorta di balletto. Anche Aki Kaurismäki continua a fare degli ottimi lungometraggi, perché gira semplicemente belle storie, pure con una staticità ordinata e pulita che di dolly può fare benissimo a meno – o quasi.

Forse, potremmo azzardare e dire che soldi e tecnica non servono a fare di un film un bel film, ma che basta girare le storie giuste secondo il proprio gusto e le proprie abilità. Cioè: un film girato tra quattro pareti a camera in prevalenza fissa con pochissimi attori, alla 12 Angry Men di Sidney Lumet o La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock (ma anche Tape di Richard Linklater o Room di Lenny Abrahamson, tra i contemporanei), può tranquillamente essere un gran bel film come è Barry Lyndon di Stanley Kubrick che ne potrebbe rappresentare, invece, uno degli esatti opposti.



Un’altra domanda allora sorge spontanea. L’opposta: cosa rende un film un brutto film? Su The Tree of Life di Terrence Malick si è detto di tutto e il contrario di tutto (“non sostiene i tempi”, “non sa fare recitare gli attori”, “ha una sceneggiatura incomprensibile”, “è una lagna soporifera senza limiti”) e questo tutto può esser condensato nel celebre aneddoto della cineteca di Bologna che, nel 2011, lo proiettò per una settimana al contrario e nessuno si accorse di nulla, creando così un “falso d’autore” senza che nessuno ne fosse consapevole. Eppure Malick è un nome, anzi, un autore appunto di film monumentali come I Giorni del Cielo o La Sottile Linea Rossa. Al contrario, La Prima Volta (di mia figlia) è una commedia italiana che muore su sé stessa vittima di una sciatteria a tratti imbarazzante. Con una trama da puntata espansa de Un Medico in Famiglia, ha tempi comici dozzinali e altri seri e lamentosi; in più non ha nemmeno l’alibi di una regia d’autore o di attori di un certo spessore: è una mezza porcheria finita al cinema per miracolo invece di stare su Canale 5 prima di Tiki Taka. 

Eppure, per tutti questi film e questi registi sembra esserci una forza oscura che ci tiene incollati alle poltroncine – o ai divani di casa. Ed è un’energia legata a una serie di nomi che a molti non diranno assolutamente nulla ma che in realtà sono la formula magica che non vi fa scappare a gambe levate.

Roma, di Alfonso Cuarón

Partendo dall’inizio, ci perdonerete l’elenco ma è soltanto una esigua parte di quanti meriterebbero di essere citati: Vittorio Storaro per Apocalypse Now, Alfio Contini per Il Portiere di Notte, il fido Robert Yeoman con Anderson e Timo Salminen con Kaurismäki, Boris Kaufman con Lumet, Robert Burks con Hitchcock e John Alcott con Kubrick. Chi è questa gente? Semplicemente una minuscola parte di celebri direttori della fotografia. Emmanuel Lubezki, detto “Chivo”, al momento è probabilmente ai vertici della fotografia cinematografica mondiale. Unico nella storia a vincere tre Oscar di seguito (nel 2014, 2015 e 2016, per Gravity, Birdman e Revenant) e a salvare un film come The Tree Of Life dal tracollo. Lo stesso discorso vale per Maurizio Calvesi, non a caso scelto da Claudio Caligari per Non Essere Cattivo, in grado di dare quel quid aggiunto sia al cinema d’autore e ben strutturato di Özpetek o Faenza che a quello “alla buona” di Vincenzo Salemme.



Ovviamente non si tratta di una questione di confezione. I film non sono dei pacchi da mettere sotto l’albero di Natale e la fotografia non corrisponde alla carta regalo ne tanto meno al fiocco. Un film con una bellissima fotografia non è necessariamente un film girato bene né tanto meno un buon film tout court. Chi lo considera tale è un cretino che non sa fare dei distinguo. Il miracolo del cinema è collettivo, e il compito principale di tutti i Festival dovrebbe essere quello di celebrare, al di sopra anche dei premi stessi, il cinema come forma d’arte collaborativa. Se quel capolavoro de La Morte Corre sul Fiume non avesse quel lavoro di Stanley Cortez probabilmente ce ne ricorderemo meno, visto che nel 1955 anticipava di mezzo secolo delle soluzioni che poi troveremo persino nei video di Bjork, ma ciò non toglie che senza la solidissima sceneggiatura di James Agee, la regia di Charles Laughton o la prova attoriale di Robert Mitchum, probabilmente, sarebbe solo un western atipico dalle tinte crepuscolari. Se parlando di The Hateful Eight di Quentin Tarantino ci limitassimo alla sola fotografia di Robert Richardson (pellicola da 70mm e lenti antropomorfiche con un rapporto 2.75:1, quindi caratteristicamente panoramiche, con paesaggi mozzafiato dai colori molto saturi) potremmo dire che è proprio un bel film. Purtroppo però la regia, copione, montaggio e soprattutto le idee non sono per nulla originali e gli attori sono quasi tutti gli stessi di sempre, e si vede. Ad avere un briciolo d’onestà intellettuale non si può chiudere un occhio e far finta che sia tutto apposto solo perché la fotografia è eccellente. Proprio perché il cinema non è un pacco regalo e la fotografia non è certo il fiocco – e pure se lo fosse, non so voi, ma io non ho mai gioito per il solo fiocco. Qua, insomma, nessuno è fesso. 

E la cerimonia della scorsa notte sta lì a dimostrarcelo: a vincere è stato Roma di Alfonso Cuaròn (di cui è anche direttore della fotografia) che, tra tutte, era di sicuro la pellicola in cui la fotografia era più coesa alla bellezza e alla potenza del film stesso, rispetto alla parzialità delle altre nominate: la classica perfezione stucchevole di Cold War o il pastiche da multiplex-qualsiasi di A Star Is Born e Never Look Away in testa; ma anche de La Favorita, l’unico altro titolo competitivo (almeno) da questo punto di vista.

Il direttore della fotografia è il primo e principale compagno d’avventura di chi dirige (e in questo caso persino la stessa persona): ha una solida cultura generale e pittorica in particolare ed è la persona che deve interpretarne le esigenze, fornendo, attraverso l’immagine, uno stile al film. Qualità sempre più importanti perché, col tempo, il suo ruolo si è progressivamente trasformato da tecnico ad artistico. Per questo quaranta registi e direttori della fotografia hanno firmato una lettera contro la proposta dell’Academy di consegnare i premi delle categorie tecniche, tra cui appunto la fotografia (ma anche montaggio, trucco e cortometraggio) in versione oscurata. Nessuno crede che sia possibile eclissare il premio come Migliore Film o Migliore Attore su uno spot della crema antirughe, se è possibile meglio prendersela con quei premi “minori” come la musica, la scenografia o i costumi. Ma che, proprio come abbiamo visto ora per la fotografia, sono una parte integrante (e imprescindibile) che contribuisce e rendere un film un buon film, nonostante magari l’ego dei premiati sia meno ingombrante di quello di tanti registi o attori.