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‘Triangle of Sadness’: Instagram, vomito e lotta di classe, così finisce il ’900

Dopo ‘The Square’, lo svedese Ruben Östlund ha vinto la sua seconda Palma d’oro con il film che racconta il naufragio del secolo breve (e densissimo). Ribaltamenti wertmülleriani, Shakespeare e reality show. La Rolling recensione

Foto: Teodora Film

Vi diranno che Triangle of Sadness, seconda Palma d’oro del portentoso Ruben Östlund dopo The Square, è un film sul nostro tempo. Sull’insta-era che consuma tutto. Sugli scrolloni (noi) e gli scrocconi (gli influencer) che postano foto di spaghetti #foodporn (o la moda è già passata?) e poi non mangiano niente, «è solo per la foto, sono celiaca». Sulle celebs, o presunte tali, che si accoppiano tra loro, «così raddoppiamo i follower». Su quella grande chiesa che va dagli ormai abusatissimi quindici minuti (secondi) di Andy Warhol e arriva fino a Giulia Torelli.

Non credeteci. Tutto questo c’è, ed è deliziosissimo, precisissimo. Ma Triangle of Sadness non è un film sull’oggi: è un film sul Novecento, e il suo (letterale) naufragio. Dopo un avvio che, appunto, ci dà l’illusione che il punto sia la contemporaneità – due modelli fidanzati tra loro, interpretati da Harris Dickinson e Charlbi Dean (morta a fine agosto: l’unico, tristissimo motivo per cui è difficile vedere il film), discutono a cena di parità di genere e altre nobili battaglie della causa digitale – si passa al nodo cruciale del racconto. Che è, appunto, la fine del secolo insieme più breve e più denso. Ambientata su uno yacht che accoglie i due supermodel insieme a ricconi di varia natura. E all’equipaggio che sfrutterà la ghiottissima occasione di un ammutinamento.

Il regista Ruben Östlund dirige Woody Harrelson sul set di ‘Triangle of Sadness’. Foto: Teodora Film

Una fine irreversibile, squadernata senza tralasciare nulla: capitalismo e comunismo (l’Internazionale che risuona per i corridoi dello yacht), guerra (i vecchietti inglesi che son diventati ricchi grazie alle bombe a mano) e lotta di classe, che torna – evviva! – tema cruciale dello storytelling corrente (cfr. Parasite e The White Lotus, per dirne due su mille). Senza spoiler: in un ribaltamento wertmülleriano del gioco delle parti, una cazzutissima filippina si ritroverà a tenere in scacco tutti i ricconi. E no: non è il sequel del documentario di Gianluca Vacchi.

È un naufragio prêt-à-porter, perfetto per un reel, e dentro c’è tutto quello che è stato travolto da un manco troppo insolito destino. La nouvelle cuisine e Lenin, e poi Kennedy, l’alta moda, Thatcher, i Rolex, Reagan: non manca niente e nessuno all’appello, soprattutto nel succoso dialogo tra un laido russo e il capitano di crociera (sempre immenso Woody Harrelson). Nessuna orchestrina suona mentre il Titanic (però cafone, pieno di cacca e di vomito) affonda, non c’è redenzione per nessuno, né per i ricchi né per i poveri.

L’unica realtà possibile è il reality, e quindi quella che poteva essere una Tempesta scespiriana – il terzo atto del film – diventa irresistibilmente un’Isola dei famosi dove si barattano buoni addominali per un sorso d’acqua (però Evian). Östlund, per alcuni sopravvalutato, è furbo ma lucido, compiaciuto ma sempre capace di cogliere l’esprit du temps, dagli egoismi privati (Forza maggiore) agli individualismi collettivi (prima The Square, ora questo).

Triangle of Sadness gli è valso, dicevo, la seconda Palma, ora è passato alla Festa di Roma, esce in sala il 27 ottobre. Se per un attimo volete mollare lo scroll su Instagram, è il film giusto da vedere. Portatevi un sacchetto per vomitare – o dei fazzoletti per piangere la fine di quel secolo bellissimo, di cui ci siamo dimenticati per l’ansia di selfarci.

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