‘Thunderbolts*’: la recensione del nuovo film Marvel | Rolling Stone Italia
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‘Thunderbolts*’: davvero ci serviva l’‘Avengers’ tarocco? (Spoiler: sì)

Dopo tanti passi falsi, il Marvel Cinematic Universe regala un film che ripercorre i suoi giorni di gloria e finalmente si rimette in carreggiata. Complice un grande cast. La nostra recensione

‘Thunderbolts*’: davvero ci serviva l’‘Avengers’ tarocco? (Spoiler: sì)

Alexei Shostakov/Red Guardian (David Harbour), Ghost (Hannah John-Kamen), Bucky Barnes (Sebastian Stan), Yelena Belova (Florence Pugh) e John Walker (Wyatt Russell) in ‘Thunderbolts*’

Foto: Marvel Studios

All’inizio del nuovo film Marvel Thunderbolts* (nelle sale italiane dal 30 aprile, ndt) – dopo aver visto l’agente speciale Yelena Belova (Florence Pugh) precipitare da un grattacielo a Kuala Lumpur, ma prima di vedere Bucky Barnes (Sebastian Stan) lavare la sua protesi in lavastoviglie – si tiene un evento di gala in quella che era la Torre degli Avengers. L’ex quartier generale degli eroi più potenti della Terra è stato acquistato da Valentina Allegra de Fontaine (Julia Louis-Dreyfus), direttrice della C.I.A. e tirapiedi del MCU, diversi anni fa. Una mostra sulla battaglia di New York riempie l’atrio, con gli ospiti che ammirano manufatti alieni e altri oggetti recuperati da un giorno che vivrà nell’infamia del franchise. L’intera faccenda è un po’ una facciata da parte di de Fontaine, dato che si occupa di loschi traffici che l’avrebbero messa in contrasto con la missione benefica di Tony Stark & Co. Ma è anche un’intuizione molto efficace: non solo vuole recuperare l’eredità di Iron Man, Capitan America e altri, ma anche ricordare alla gente perché i supereroi sono stati, in primo luogo, un grande affare. In altre parole, un vero e proprio film per ricordare i giorni di gloria.

Anche voi ricorderete il momento in cui, quasi 13 anni fa, dopo aver pazientemente preparato il terreno per un enorme crossover, i Marvel Studios hanno scatenato gli Avengers su un pubblico inferocito e hanno terremotato l’industria. Dire che da allora i risultati sono stati variegati è come definire lo “Snap” di Thanos come un “time out”. Thunderbolts* vuole tornare alla memoria questa pietra miliare del MCU – e l’impeto della prima ondata Marvel nel suo complesso – così tanto che in alcuni momenti si ha la sensazione che si tratti di un’ulteriore stanza del museo di Valentina, che vuole rendere omaggio a un passato ormai lontano. C’è persino una ripresa dell’iconico momento di “assemblaggio” del cast originale, che ora però vede la presenza di un enorme bruto russo, della sua avvelenatissima figlia, di un “Capitan America junior”, dell’uomo con il braccio da cyborg e di un “utility player“.

La buona notizia è che il rapporto qualità-prezzo favorisce in larga misura la prima parte, anche se non si può tornare indietro nel tempo come nell’era di Avengers Endgame, e invertire le catastrofi del “controllo qualità” dei cinque anni precedenti del Marvel Cinematic Universe. Il 36esimo film di questa onnipresente telenovela pop è estremamente disomogeneo. Ma è anche emozionante, divertente, irriverente e allo stesso tempo molto rispettoso della Casa che Kevin Feige ha costruito. Inoltre, funziona sorprendentemente bene sia come film a sé stante (più o meno) sia come ponte tra il punto in cui la serie è arrivata e, come richiesto dal tradizionale teaser post-credits, il punto in cui è diretta. Chi ha bisogno di un Avengers “tarocco”, fuori dagli schemi, composto da personaggi marginali a cui viene finalmente data la possibilità di crescere collettivamente? La risposta è: a voi.

Thunderbolts* | Trailer Finale | Dal 30 Aprile al Cinema

In realtà, l’ensemble di assassini, ex agenti doppiogiochisti e player secondari che compongono i “Thunderbolts” – il nome nasce per scherzo, prendendo spunto dalla squadra di calcio di quando Yelena era bambina (e con cui non aveva mai vinto) – assomiglia di più alla Suicide Squad di Washington. Bucky, Yelena, il suo irascibile padre Alexei “Red Guardian” Shostakov (David Harbour), John “U.S. Agent” Walker (Wyatt Russell) e l’etereo Ghost (Hannah John-Kamen), in grado di mutare la materia, sono tutti nati come supercattivi, prima di essere ufficialmente ribattezzati qui come antieroi moralmente discutibili. Valentina agisce addirittura come una sorta di boss-antagonista alla stregua dell’Amanda Waller di Viola Davis, anche se, invece di riunirli per una missione “do-or-die”, manipola diversi futuri Thunderbolts in uno scenario “just-die-already”. Il Congresso sta indagando sulle sue attività clandestine legate ai supereroi. Ognuno di questi assassini è una questione in sospeso. Perché non metterli l’uno contro l’altro e tenersi le mani pulite?

Il piano le si ritorce contro, soprattutto quando Yelena, Walker e Ghost si rendono conto di essere stati incastrati. Peggio ancora, che devono lottare per uscire da questa situazione spinosa quando arrivano gli scagnozzi del governo per finire il lavoro, il che richiede di collaborare fra loro e di fidarsi l’uno dell’altro. E poi c’è Bob (Lewis Pullman). Giunto nel bel mezzo della mischia in pigiama, questo tipo timido e un po’ enigmatico è un mistero per tutti loro. Anche Bob non sa bene cosa ci faccia in un remoto avamposto militare. Forse ha a che fare con il “Progetto Sentinella”, un’operazione supersegreta che Valentina vorrebbe tanto fosse nascosta sotto mille tappeti diversi. Forse è anche per questo che Bucky, dopo aver ricevuto una soffiata dall’assistente di Valentina (Geraldine Viswanathan), finisce per abbandonare la sua carriera politica e si incontra con i fuggitivi, nonché con l’esuberante papà di Yelena che guida la limousine. Forse il ragazzo goffo e senza pretese che sembra uno spettatore innocente è in realtà la presenza più potente in tutta questa equazione. Ci sono molti “forse” qui, gente.

Come ogni aspirante Nick Fury vi dirà, la chiave per assemblare una squadra di supereroi di successo è sapere quali sono i punti di forza di ciascun membro e quale combinazione produce la somma più complementare fra tutte le parti. La stessa cosa vale per i cast corali, e dopo aver seminato tutti questi disparati, disdicevoli signori e signorine non proprio gentili in vari capitoli nel corso degli ultimi dieci anni, i poteri creativi (e aziendali) hanno trovato una combinazione che funziona meglio di quanto ci si possa aspettare.

Ognuno conosce le parti che deve recitare: Stan è responsabile del rimuginio meditativo, Harbour della sbruffonaggine ad alto volume, Russell porta l’aria da stronzo di livello 10, Pullman riesce a mettere in scena sia l’aspetto del manchild che quello della megalomania, e John-Kamen riempie doverosamente ogni vuoto residuo. Si vorrebbe che Viswanathan avesse più spazio, dato che spesso è la cosa migliore di qualsiasi progetto di cui fa parte, ma la lotta per il tempo sullo schermo e per lasciare il segno in mezzo all’impressionante sound and fury del regista Jake Schreier è dura. A meno che non siate Julia Louis-Dreyfuss, ovviamente, che, sfoggiando una pettinatura a strisce alla Susan Sontag e regalando battute come “La rettitudine senza potere è solo un’opinione” con un micidiale tocco comico, si assicura di rubare ogni singola scena in cui si trova.

Florence Pugh/Yelena Belova in una scena del film. Foto: Marvel Studios

E Florence Pugh? È la battitrice libera che aggiunge leggerezza, gravità e altri livelli di profondità al processo. Una forza da non sottovalutare da quando Lady Macbeth (2016) l’ha incoronata come un talento rilevante, Pugh è innegabilmente una vera e propria star del cinema; si può affermare con forza che non ha bisogno di Thunderbolts*, e del MCU in generale, quanto Thunderbolts* di lei. Tuttavia, questa potentissima interprete è in grado di non farvi mai sentire come se pensasse di essere migliore di tutto questo, anche se chiaramente lo è.

Non è solo la presenza sullo schermo di Pugh, il suo senso dell’impegno o la sua inclinazione a far funzionare i dialoghi anche imbracciando armi, ma la sua determinazione a sollevare applausi per via delle sue turbolenze psicologiche ed emotive a far volare questo divertente blockbuster oltre i soliti schemi del franchise, soprattutto quando le cose si fanno letteralmente e figurativamente oscure. Senza essere un guastafeste che fa spoiler, questa è una storia pesantemente intrisa di traumi, con un’enfasi particolare sul passato burrascoso di due personaggi. Pugh riesce a vendere tutto, a partire dalle solite questione di bene e male, senza farvi sentire come se vi avessero venduto un altro capitolo della stessa vecchia storia. E poi è una grande giocatrice di squadra.

A proposito di quel curioso e fastidioso asterisco nel titolo: è lì per rappresentare un senso di temporaneità, come se non fosse qualcosa di permanente. Se la “soluzione” a questo cosiddetto problema si risolve a vostro piacimento, o se nulla cambia dopo l’estesa preview post-credits di ciò che è in programma, è in gran parte soggettivo. Possiamo dire che questo aspetto rientra nel senso della “meta-missione” di Thunderbolts*, che è quella di richiamare un’epoca prima che la “stanchezza da supereroi” ci investisse tutti, prima che quello che sembrava il più colossale gioco di proprietà intellettuale in circolazione venisse ridimensionato da decisioni sbagliate, livelli di gioco scioccamente interconnessi e un triste senso di eccesso alimentato dalla presunzione di poter far qualsiasi cosa. L’obiettivo principale di questa serie è quello di creare una nuova squadra di eroi. L’obiettivo secondario è quello di fermare quella che è stata innegabilmente una spirale negativa. In questo senso, almeno, ci riesce. Non si tratta di un ritorno ai fasti dell’originale, ma di un ritorno estremamente necessario e gradito a una formula vincente.

Da Rolling Stone US

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