L’aria del Lido pareva rarefatta già ieri mattina presto, quando ai soliti controlli di sicurezza l’inusuale fila a perdita d’occhio sembrava non diminuire mai. E allora la corsa verso un altro posto di blocco che apparisse meno affollato. Poi l’ingresso in sala con il cuore in gola, il film che inizia per ovvi motivi in ritardo, le lacrime che scendono inesorabili.
Alla fine della proiezione per la stampa, un secondo di pausa. E poi l’applauso. Non quello meccanico, da protocollo festivaliero, ma un battito di mani che sembrava non voler finire, come se i giornalisti avessero bisogno di restare lì dentro ancora un po’, per non uscirne subito. Nel tardo pomeriggio, il red carpet – rito supremo di sorrisi, autografi e glam – scivola via in un silenzio quasi irreale: tutti vestiti di nero, con la foto di Hind Rajab tra le mani. C’erano anche Joaquin Phoenix e Rooney Mara (tra i produttori insieme a Brad Pitt, Alfonso Cuarón, Jonathan Glazer), con appuntata sul petto la spilla rossa che chiede il cessate il fuoco. E dentro la Sala Grande, una standing ovation di 23 minuti: il pubblico che intona “Free Palestine” mentre uno degli interpreti, Mataz Malhees, sventola la bandiera con il triangolo rosso. Venezia non vedeva da tempo una scena così: il cinema che non solo racconta, ma rivendica il diritto di entrare nel cuore del conflitto.
Il 29 gennaio 2024, una bambina di sei anni, Hind Rajab, rimase intrappolata in un’auto crivellata da 355 proiettili dell’IDF a Gaza, circondata dai cadaveri dei suoi familiari, mentre i volontari tentavano invano di salvarla. “Si vedono ovunque i corpi dei ragazzini a pezzi per le strade. Pensi che pubblicare sui social l’audio di una bambina ferita cambierà qualcosa?”, chiede Omar (Malhees), l’operatore della Mezzaluna Rossa che riesce a stabilire il contatto, al coordinatore dei soccorsi schiacciato dall’impossibilità di trovare via d’uscita davanti all’ennesimo vicolo cieco. È anche la domanda al cuore di The Voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania (Quattro figlie). Siamo in uno dei tanti momenti devastanti di questo ottovolante della speranza di cui tristissimamente conosciamo già la fine: schiantato nella disperazione, nella più grande tragedia umana che si possa immaginare. «Questo film non è un’opinione, ma ha salde radici nella realtà. La sua voce è quella di diecimila bambini uccisi in due anni a Gaza, la voce di ogni figlio o figlia che ha diritto di esistere e di sognare. Dietro ogni numero c’è una storia che non ha avuto l’opportunità di essere raccontata. Questa è la storia di una bambina che chiede: “Salvatemi”. Nessuno può essere in pace quando i bambini ci chiedono di essere salvati», afferma un’altra dei protagonisti, Saja Kilani.
Quello che resta sono settanta minuti di audio registrato delle telefonate con il centro operativo: la voce flebile e terrorizzata di Hind che supplica “venite a prendermi”. È da lì che parte Ben Hania. Niente immagini shock prese dal fronte, niente reportage. La regista tunisina costruisce un film claustrofobico in un’unica location, la centrale dei soccorsi, come aveva fatto Gustav Möller in The Guilty. Solo che qui non c’è fiction che tenga: c’è il grido di Hind, montato sulle parole degli attori che interpretano i soccorritori; c’è la frustrazione inerme di chi dall’altra parte della cornetta non sa più che fare, incastrato in strati kafkiani di burocrazia e paura.
Ecco, The Voice of Hind Rajab procede come un thriller dell’impotenza. Omar (Malhees) esplode di rabbia, incapace di tollerare le lentezze del sistema; lo stoico Mahdi (Amer Hlehel) si perde tra via libera per corridoi umanitari che non arrivano mai; l’empatica Rana (Kilani) cerca di calmare la bambina con parole che non bastano; la psicologa Nisreen (Clara Khoury) prova a tenere insieme i pezzi. Attorno, soltanto telefoni, monitor, attese che si allungano mentre la tragedia si compie. È cinema del reale e insieme melodramma politico, teatro di guerra e guerra in diretta.
Il dispositivo è semplice, e proprio per questo devastante: la voce vera di Hind da un lato, i corpi degli attori dall’altro. Finzione e cronaca si intrecciano, con inserti video reali girati dai telefoni degli operatori, come se i confini tra cinema e documento si sciogliessero di continuo. Siamo oltre il cinema-verità, oltre il docudrama: qui l’effetto non è quello di rappresentare, ma di restituire l’angoscia in presa diretta, senza filtri. Non è realtà, certo, ma è qualcosa che ti schiaccia addosso la realtà e di cui siamo obbligati a essere testimoni. “Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”, cantava De André.
Eppure è un’operazione che finisce anche per dividere. Alcuni spettatori vengono travolti dall’orrore e dalla disperazione, altri storcono il naso davanti alla retorica che Ben Hania stratifica su un materiale che, in sé, non avrebbe bisogno di amplificazioni. E anche le performance, pur sincere e vibranti, qua e là sacrificano le sfumature in favore dell’intensità immediata.
I critici stessi sono spiazzati: c’è chi grida al capolavoro, chi risolve con un “è impossibile da recensire”, chi cerca di evitare l’aggettivo “necessario”, che rischia sempre di suonare sospetto. Ma come lo chiami, un film così? O forse la vera domanda è un’altra: il fine giustifica i mezzi? Siamo di fronte a un cinema che non teme la retorica, che usa consapevolmente la forza empatica delle lacrime di una bambina. Un cinema che rischia il ricatto emotivo, che supera certi limiti della rappresentazione e persino dell’etica («Quando si amplifica la voce dei palestinesi, si viene accusati di fare exploitation», ha detto Ben Hania), ma lo fa dichiaratamente per scardinare l’indifferenza. “L’arte è più lenta della guerra”, diceva l’altra protagonista della giornata di ieri alla Mostra Eleonora Duse/Valeria Bruni Tedeschi, “ma arriva più lontano”. E se aprirà anche solo un occhio (o un orecchio) a chi finora ha finto di non vedere la demolizione sistematica della Palestina, avrà fatto quel che deve. Ma resta un film che non lascia scampo: divide, interroga, costringe a prendere posizione. «Quando ho sentito la voce di Hind», ha detto la regista in conferenza stampa, «ho capito che non era solo la sua. Era la voce di tutta Gaza che chiedeva aiuto».
C’è poi anche la questione dei premi: dalla possibilità concreta del Leone d’oro alla candidatura ufficiale da parte della Tunisia agli Oscar, con il sostegno dei produttori hollywoodiani di peso che contribuirà a dargli visibilità. The Voice of Hind Rajab è il nuovo capitolo di una serie di film che negli anni hanno provato a raccontare Gaza e la West Bank. La sua urgenza sta tutta nel tempismo, come accadeva con No Other Land poco più di dodici mesi fa. Eppure siamo ancora qui, un anno dopo, con lo stesso orrore che non si ferma.
