‘The Animal Kingdom’: la recensione del film di Thomas Cailley | Rolling Stone Italia
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‘The Animal Kingdom’, ma come fanno i francesi…

A fare un film che è un horror sci-fi, ma soprattutto una storia di formazione universale. A piegare il cinema di genere al racconto sociale, sempre. A far diventare l’indie il nuovo mainstream. Esce in Italia l’opera seconda di Thomas Cailley, e noi vi consigliamo di non perderla

‘The Animal Kingdom’, ma come fanno i francesi…

Paul Kircher in ‘The Animal Kingdom’ di Thomas Cailley

Foto: I Wonder Pictures

Ma come fanno questi francesi, io non lo so, e però ti fregano sempre, alla fine puntualmente sospiri: che bravi, se solo noi potessimo, sapessimo, riuscissimo, eccetera. The Animal Kingdom, titolo non si sa perché in inglese dell’originale Le règne animal (Il regno animale faceva così schifo?), ha ormai una sua storia piuttosto lunghetta. Film d’apertura di Un certain regard a Cannes 2023, è passato da noi in autunno alla Festa del Cinema di Roma ed esce nelle sale adesso, il 13 giugno, data infaustissima ora che è arrivata l’estate – persino a Milano!

Thomas Cailley aveva già diretto un bel film dieci anni fa, Les combattants (da noi The Fighters: è un vizio), racconto di una realtà distopica o di una distopia reale (scusate) che era soprattutto la storia di formazione di due ragazzi che entrano nell’esercito ed escono – da quell’addestramento alla vita e dal film – scappando nei boschi. Anche in The Animal Kingdom c’è una commovente corsa finale nei boschi (non spoilero oltre), che è l’oltrepassare la solita linea d’ombra, il salto nel vuoto, l’iniziazione al mondo e soprattutto a sé stessi.

THE ANIMAL KINGDOM | Trailer italiano ufficiale HD

Qui la distopia (scusate di nuovo) è ancora più spinta. Un’ondata di mutazioni sta trasformando alcuni esseri umani in animali. In un ingorgo nel traffico spunta un uomo con le ali da corvo. Al supermercato un tizio con i tentacoli corre fra i banchi dei surgelati. Anche la mamma di Émile (Paul Kircher, ventitreenne già notevole in Winter Boy – Le lycéen di Christophe Honoré) sta piano piano diventando un felino, ce lo dice un primo piano struggente. Devono spostarla in una struttura dedicata a queste bestie che nessuno vuole tra i piedi, e allora il ragazzo si trasferisce col papà (sempre bravo e figo Romain Duris) in una casetta vicina all’istituto. I nuovi compagni di scuola. Una ragazza. E poi…

E poi c’è questa cosa che riesce solo ai francesi, dicevo. Prendere una storia tra sci-fi e (body) horror che però al fondo resta un racconto d’umani (padri e figli, ragazzi e ragazzi, noi e gli altri), e qua sta la tipicità DOP. Da noi molto spesso, specie negli ultimi anni, ci si è rifugiati nel genere come fuga, scusa, atto di (comprensibile) ribellione al cinema mainstream. In Francia mi sembra si tentino invece operazioni opposte: prendere il genere e decostruirlo per farlo diventare storia universale. Succede anche in questo film che è pieno d’orrore anche fisico (splendido il personaggio dell’uomo-corvo Fix), ma dove tutto rimane storia di famiglia, di formazione, di cosa vuol dire diventare grandi.

Romain Duris e Adèle Exarchopoulos in una scena del film. Foto: I Wonder Pictures

Cailley si perde in qualche lungaggine, specie verso il finale; e spreca qualche personaggio: su tutti la poliziotta schiva di Adèle Exarchopoulos, un ruolo inusuale per lei, che dunque avrebbe meritato più spazio. Ma è molto bravo a creare tensione appunto orrorifica, a giocare con gli scuri e gli oscuri della scrittura e delle immagini (il direttore della fotografia è suo fratello David: a proposito di storie di famiglia), a fare di questa parabola ad alto tasso simbolico – la crescita, la diversità, la difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo – più un classico racconto dell’eroe che una didascalia per metafore. (Curiosamente, c’è nelle sale in questi giorni un altro bel film che era al Certain regard dell’anno scorso: Rosalie di Stéphanie Di Giusto, con quel portento di Nadia Tereszkiewicz donna scimmia alla fine dell’800, dunque rifiuto della società o acclamato fenomeno da baraccone; in realtà solo una ragazza che vuole, anche lei, il suo posto, la sua libertà.)

The Animal Kingdom è stato in patria un caso, a suo modo, mainstream. Ha avuto tanti spettatori e vinto cinque César, fotografia, effetti visivi (ottimi), costumi, suono e colonna sonora, che è altro elemento d’interesse, almeno per noi. L’ha scritta Andrea Laszlo De Simone, che in Francia è amatissimo soprattutto dal cinema, le sue canzoni sono ovunque e una delle più famose, Conchiglie, è nel film di Honoré che citavo. E anche la musica – molto bella – scritta per questo film è in versione anti-genere, molto classica, niente buio e tutta luce, apre a quell’ultimo sguardo (non vi dico fra chi), a quella corsa finale, a quel “vai, è ora” che è tana libera tutti, uomini, donne, animali.