Rolling Stone Italia

Sui generi(s): Il Grande West – Parte II

‘Ombre rosse’ di John Ford è tradizionalmente considerato “il primo western”. Ma tre anni prima, nel 1936, uscì ‘La conquista del West’ di Cecil B. DeMille con Gary Cooper. Che cambiò davvero tutto

Foto: Hulton Archive/Getty Images

La storia del western richiama nomi come Tom Mix, George O’Brien, William Surrey Hart. Ma siamo nel muto, nella preistoria. Non rimangono segnali, anche se Hart era un cineasta completo, sceneggiatore, regista, e aveva una faccia che il cinema accoglierebbe anche oggi. La nascita del genere, inteso come serio se non nobile, viene indicata con Ombre rosse (1939). Il film mostrava due crediti, primi motori indiscussi: il regista John Ford e l’attore Wayne. Il titolo non è solo un grande western, è un grande film. Eccola, la legittimazione.

Solo che Ombre rosse non è il primo. Tre anni prima, nel ’36, Cecil B. DeMille aveva firmato La conquista del West, un poema completo sull’Ovest. Non c’era John Wayne ma Gary Cooper, dunque i punti di valore sono più o meno gli stessi. Nel film DeMille accorpava Lincoln (l’episodio del suo assassinio), William Cody (meglio noto come Bufalo Bill), Calamity Jane e Bill Hickok. Le loro storie si intrecciano sullo sfondo della celebre disfatta di Custer (sì, c’è anche lui) al Little Bighorn. E visto il contesto, ecco che non mancano Toro Seduto e Cavallo Pazzo. Il termine epopea non è mai stato tanto legittimo. Incrociare quei personaggi della mitologia dell’Ovest non era storicamente semplice, ma il West, come ho già detto, non era il western, e così quel film si accredita come verità cinematografica, dunque come non-verità, ma ha scarsissima importanza.

Un inciso: John Wayne per la sua Battaglia di Alamo costruì la famosa missione a una ventina di miglia da San Antonio, dove c’è quella vera. Ebbene, le agenzie che organizzano quel viaggio hanno più clienti che visitano quella di Wayne. Altre due verità a confronto.

La conquista del West presenta un tocco rilevante, nella vicenda e nell’estetica: quello di DeMille. Ma ciò che rimane nella memoria popolare è Cooper-Hickcok che viene assassinato da un “piccolo cialtrone” con un colpo alle spalle. Hickcok stava giocando a poker. Ancora oggi a Deadwood puoi visitare quel saloon dove avvenne il fatto. Sul tavolo sono rimaste le carte che Bill aveva in mano prima di essere ucciso, una coppia di otto e una di assi. La combinazione viene chiamata, appunto, la mano del morto. Sempre di West/western trattasi. Leggenda Hickok, leggenda Cooper. È il cinema, bellezza.

Ho citato Wayne e Cooper, due fra i massimi modelli del genere. Un’altra combinazione, magnificamente confusa fra cinema e realtà, è il Monte Rushmore a Rapid City, North Dakota. Sempre in chiave di cinema: chi lo conoscerebbe se non fosse per Intrigo internazionale di Hitchcock? Il monte rappresenta a grandi effigi quattro presidenti, fondamentali, degli Stati Uniti: Washington, Jefferson, Lincoln e Theodore Roosevelt. Un monte Rushmore del western sarebbe un’idea e un’estetica perfette. Ma a chi apparterrebbero le quattro effigi? Due nomi sono già stati fatti, il terzo non può che essere James Stewart. E il quarto? La discrezionalità presenta una forbice molto larga: Lancaster, Douglas, Flynn, Taylor, Ladd? E siccome la discrezionalità è la mia, a quarta effigie pongo Randolph Scott.

Non era nel cast dei classici degli altri, i suoi film erano scritti da sceneggiatori inadeguati, ma il volto di Scott, con un’unica espressione per un centinaio di western, era come una pietra americana. Randolph ha fatto (quasi) solo western, è stato il più fedele e assiduo, si è guadagnato sul campo il riconoscimento. E tutte e quattro le icone possedevano i codici indispensabili per il West, per gli spazi della terra e del cielo: alti quasi due metri, capelli biondi e, soprattutto, occhi azzurri. Il cielo, appunto.

I comanceros (Michael Curtiz, 1961) è il film dove Wayne è più Wayne. È lì che pronuncia quella frase già citata: “Io ho quella che tu forse consideri una debolezza: sono onesto”. Nel film Wayne fa lo sceriffo. Sta portando un prigioniero dalla Louisiana al Texas, durante un attacco degli indiani il prigioniero gli salva la vita. Wayne è imbarazzato. L’altro gli dice: “Perché non mi lasci andare?”. Lo sceriffo risponde: “Ci ho ragionato, mi sono detto: e dagli la via. Ma poi ho pensato che ho fatto un giuramento”. Il prigioniero gli dice: “E tu li mantieni sempre”. Wayne col sorriso, a sdrammatizzare, dice: “Gli uomini sono le parole che dicono e che rispettano”.

John fu il preferito di due dei massimi maestri del genere, Howard Hawks e John Ford. Era l’uomo di legge ma non rigido, monocorde, aveva umanità e umorismo. Cercava anche di essere flessibile, ma alla fine non riusciva proprio a non fare ciò che doveva fare. E c’era anche una bella dolcezza nascosta in lui. Ancora nei Comanceros, un’amica di famiglia gli ricorda la moglie morta. Gli domanda: “Da quanto è mancata?”. “Da due anni, due mesi, e diciotto giorni”, risponde il ruvido uomo di legge. In Torna “El Grinta” Wayne, sempre uomo di legge e macho per eccellenza, si accompagna con l’aggressiva Katharine Hepburn. Litigano per tutto il tempo, ma alla fine la femminista ante litteram lo abbraccia e gli dice: “Voi sì siete un uomo, è stato un privilegio stare al vostro fianco”.

Il pistolero è l’ultimo film di John Wayne. Riproduco la scheda del Farinotti: “Decisamente un film ispirato, e importante… è una rivisitazione dei vecchi miti del West. Il medico che visita Wayne è James Stewart. Il film si basa su un gioco di finzione e realtà molto amato dal cinema americano: Wayne, che sarebbe morto di cancro, sta morendo di cancro anche nel film. Il suo andare all’ultimo duello in tram è la triste e geniale traduzione del suo tramonto. E di quello del western”.

Iscriviti