Storia ‘diversa’ del cinema: Questione di linguaggio – Parte II | Rolling Stone Italia
Le tourbillon

Storia ‘diversa’ del cinema: Questione di linguaggio – Parte II

I francesi continuano a rivoluzionare la Settima Arte. Dopo il Fronte Popolare degli anni ’30, nei ’60 tocca alla Nouvelle Vague di Truffaut, Godard e tutti gli altri. E tutto cambia, ancora

Storia ‘diversa’ del cinema: Questione di linguaggio – Parte II

Jeanne Moreau sul set di ‘Jules e Jim’ di François Truffaut (1962)

Foto: Bettmann/Getty Images

Una delle molte peculiarità del cinema è la capacità di assunzione delle altre forme d’arte, è notorio. Ho più volte parlato del rapporto cinema-letteratura, senza contare il contributo indispensabile, fisico, della musica. Il cinema francese, soprattutto quello di Carné/Prévert, riuscì persino a sposare la poesia pura col cinema. Ma il grande salto, la definizione e la filosofia del linguaggio del cinema, si perfezionava verso la fine degli anni Cinquanta, quando un gruppo di critici francesi decise che il protagonista assoluto non doveva essere il film, ma chi lo dirigeva. Quel movimento si chiamava Nouvelle Vague. È nella genetica dei francesi cercare di cambiare le regole, per lo meno evolverle, una cultura che arriva da lontano, riferita a movimenti ben più importanti del cinema.

C’era un gruppo di cinefili eleganti, colti, critici. Presero spunto dalla filosofia di André Bazin, uno che faceva testo. Il critico-storico del cinema fondò nel 1951 la rivista Cahiers du cinéma, intorno alla quale avrebbero agito Truffaut, Godard, Rohmer, Rivette, Chabrol, Resnais, divenuti poi registi, spina dorsale della Nouvelle Vague, appunto. Bazin teorizzò la qualità assoluta del cinema come arte, ponendo sullo stesso piano di nobiltà gli scrittori e i registi. Dunque veniva corretto il ruolo dell’autore di cinema. Non più un artigiano, magari un quasi-artista, al quale si affidava una storia col compito di trasformarla in film aderendo il più possibile alla sceneggiatura, senza metterci nulla di proprio; ma un vero auteur che poneva sul film oltre alla propria firma, la propria marca.

Questo nuovo linguaggio poneva ai neoregisti una contraddizione da superare. Avevano visto tutti i film, non potevano non essere innamorati del cinema americano di qualità (Ford, Welles, l’Hitchcock “americano”), eppure si applicarono per scardinare quei codici di racconto e di spettacolo universalmente accettati e amati. E, come detto sopra, il cinema accolse quell’intelligenza, in attesa di ricollocarla storicamente, in nome dell’assunto che il cinema, alla fine, ama essere applicato solo a se stesso. E, alla fine, ciò che il tempo screma, l’essenziale che rimane, non è mai un esercizio stilistico magari intelligente e virtuoso, ma una storia ben raccontata. Nel linguaggio di quel cinema trovano spazio certe citazioni cinefile, appunto, e anche una ricerca realistica che non può non ispirarsi a quella italiana. Con una differenza: l’originale possedeva una verità riconosciuta, l’estetica di quei film viveva di luce propria. Ho detto più volte che ogni fotogramma di certi film di De Sica, Visconti, Rossellini sono piccoli capolavori “stralciati” di arte generale. I film dei francesi non possedevano quell’energia.

New trailer for Jules et Jim - in cinemas from 4 February 2022 | BFI

Un preliminare di attenzione la “Nouvelle” lo dovette comunque a un film “spurio”, Et Dieu… créa la femme (Piace a troppi, 1956), firmato da Roger Vadim, regista di minor cultura rispetto ai futuri profeti, meno auteur di loro, ma che mise in scena Brigitte Bardot, che valeva più di tutti i linguaggi. François Truffaut è certamente uno degli autori fondamentali. Cito due titoli esemplari: I 400 colpi e Jules e Jim. Il primo racconta la vicenda del piccolo Antoine, che fugge dal riformatorio per raggiungere il mare che non ha mai visto. Bella poetica con uso “autorale” della cinecamera quasi sempre in movimento. Del secondo riporto la recensione sul Farinotti, estensibile al movimento generale della “Nouvelle”.

Jules e Jim (1962). Dal romanzo di Henri-Pierre Roché. Parigi 1907. Jules, francese, e Jim, austriaco, sono molto amici. Conoscono Catherine, ambigua, affascinante, imprevedibile. I tre diventano inseparabili. Il sentimento si evolve. A tre. Catherine sposa Jim e diventa amante di Jules. Le cose sembrano funzionare. Scoppia la guerra e i due si devono separare. Ma anche da lontano il collante Catherine funziona. I tre continuano a vivere quel legame. Finita la guerra la donna tenta la ricomposizione. Ma le cose sono cambiate, Jules ha ceduto, ha un’altra, addirittura. Catherine, che non si rassegna, alla fine decide di annegare in macchina insieme a Jules, che ha tradito. Uno dei manifesti della Nouvelle Vague e della trasgressione femminile. La donna conduce sempre la situazione, è lei al centro del sistema e si permette tutto. Passeggia con i suoi due uomini vestita da uomo, coi baffi. La Moreau, che canta la canzone Le tourbillon, divenne uno dei grandi segnali della mitologia femminile di quel decennio. Nel 2002 Jules e Jim è stato ridistribuito nel circuito delle sale, con grande promozione. Davvero un’iniziativa inconsueta, che ha riguardato pochissimi titoli. La riproposta è servita a capire che il film è un magnifico esercizio grafico che ha smarrito quasi tutta la linfa vitale e la realtà. Catherine è un disegno, una proposta letteraria valida in quel momento. Il disegno è sbiadito, la letteratura manca della fase introspettiva, che rimane nel libro e lo rende un po’ più credibile del film. Il tempo ha davvero giocato contro. Jules e Jim rimane soprattutto un riferimento di studio, di accademia, di nostalgia. Emerge la tendenza francese dell’originalità a oltranza, dell’imprevedibilità a tutti i costi, del terrore di essere normali. La Moreau fu personaggio antipatico, magari odioso ai non trasgressivi. Ma un’eroina.”

Un altro manifesto di quel movimento è Fino all’ultimo respiro (1960) di Jean-Luc Godard. È la storia di Michel, un ladro inseguito dalla polizia e alla fine tradito dalla donna che ama. Il film valeva per il suo linguaggio anarchico e disordinato, più che per i contenuti. È uno dei massimi culti di una certa corrente di cinefili. La si deve a Chaplin, Dreyer, Ford, Hitchcock, Bergman, Welles, Renoir, Carné, De Sica, Visconti, Fellini, Kubrick, Scorsese, Wenders, Cohen, Almodóvar e qualcun altro, l’omologazione fra le due nobiltà, cinema e letteratura, più che ai teorici-critici della Nouvelle Vague.