Rolling Stone Italia

Storia ‘diversa’ del cinema: Il mito dell’eroe – Parte II

Non è un Paese per eroi… o, quantomeno, un cinema. Bisogna tornare alla Hollywood degli anni d’oro. E a Errol Flynn, eroe assoluto, dal West all’avventura

Foto: Silver Screen Collection/Getty Images

L’era contemporanea, della cultura, del sociale, di tutto, anche del cinema, non si addice agli eroi. O si addice… a fatica. Il discorso, la formula, sono complessi. A linee davvero molto grandi, una delle ragioni sta nel maggiore realismo del cinema. I modelli sono molto più vicini al cosiddetto uomo comune. Una volta, pur allungando il braccio quanto più potevi, non riuscivi a toccare il divo, era troppo bello e forte, era l’eroe. Adesso lo tocchi. È cambiato il meccanismo dell’identificazione. Il divo, per ruolo, per debolezza e imperfezioni, anche per estetica, deve essere uno come noi.

Naturalmente non manca lo star system, non mancano quei divi, ma vengono spesso “derubricati”, nell’estetica, nei ruoli, appunto. Due citazioni esemplari: il più bel volto femminile del cinema moderno, Nicole Kidman, veniva impietosamente corretto, reso normale, anzi brutto, per aderire alle fattezze di Virginia Woolf, in The Hours. Va detto che Nicole ne fu entusiasta. Quell’estetica deturpata finiva per essere un riconoscimento di bravura. L’attrice senza bellezza poteva far conto solo sul talento. E vinse l’Oscar. Nel Curioso caso di Benjamin Button, Brad Pitt, “il più sexy e il più bello di tutti”, si riduce a larva metafisica, quasi impossibile riconoscerlo. Ho citato, nella prima puntata, l’ultimo eroe attuale, Russell Crowe in State of Play. Anche il Mickey Rourke di The Wrestler è un eroe quasi vecchia maniera, e anche George Clooney di Michael Clayton lo è. Ma sono eccezioni, appunto, e come si dice, non fanno più la regola. Insomma, il cinema non è un paese per eroi, ce lo dicono i Coen in Non è un paese per vecchi, un manifesto dell’eroe… capovolto. Bardem e Brolin, i protagonisti, sono entrambi “cattivi”, il killer è vincente fino in fondo. I conti del racconto convenzionale (il buono dovrebbe vincere) non tornano. Certo, i Coen ci mettono l’ironia e sottendono la morale, ti dicono “Bardem, l’assassino, la fa franca, ma tu vedi di disprezzarlo”.

In queste stagioni del cinema, e del resto, Non è un paese per vecchi è un’indicazione che fa testo, un modello che si inserisce alla perfezione. Con un attestato indiscutibile e decisivo: gli Oscar vinti, tutti i più importanti. In questo tempo sono Crowe, Rourke e Clooney (in quei film) ad essere degli stranieri spaesati. È come nell’arte: nel quadro dell’arte moderna ci sono artisti che operano nella storia, seguono l’evoluzione delle correnti, ma continua ad esserci ancora qualche figurativo che fa i ritratti e i paesaggi, con bravura, con accademia. Quest’ultimo può ancora avere degli acquirenti, ma di lui si dice “sì, è bravo, ma superato”.

Ma ci furono stagioni in cui l’eroe non era spaesato. Il grande paese fu Hollywood. Col sistema, i mezzi e i talenti, il cinema americano inventò l’eroe e il sogno, indicò modelli che avevano la personalità e l’appeal per quella seduzione e quell’identificazione buona che è la prima opzione del cinema, alla quale si sono affidate tante generazioni. E ci si trovavano bene. Successe che nei primi anni del Novecento nascessero: Gary Cooper, Clark Gable, Spencer Tracy, Fred Astaire, Humphrey Bogart, Errol Flynn, John Wayne e James Stewart. E poi: Katharine Hepburn, Bette Davis, Joan Crawford e le “americane acquisite” Marlene Dietrich, Greta Garbo e Ingrid Bergman. Trattasi della più grande generazione di gente di spettacolo di ogni epoca.

Se si prefigura un’ideale scheda-per-eroe che contenga le voci necessarie (appeal, estetica, missione, azione), ebbene il primo nome prodotto è quello di Erroll Flynn. L’attore di origini irlandesi (o forse australiane), classe 1909, “prodotto” dalla Warner, è il massimo manifesto degli anni Trenta e Quaranta, ed è anche il più completo. Incarna almeno tre codici: l’eroe del mare, quello del West e quello assoluto in ogni storia e di ogni tempo, Robin Hood. In Capitan Blood Flynn crea un modello (stivaloni, cappello a larga tesa piumato, cintura obliqua sul petto) che fa testo (1934) e lo farà sempre. E Blood è un pirata, dunque eroe “cattivo”. Come a dire che l’attore conosceva le sfumature e le imponeva. In Custer (1942) cavalca davanti al 7° cavalleria col suo giaccone di pelle chiara, con frange. Un’immagine che va a contrastare, sottraendole l’esclusiva, la prima icona del West, John Wayne.

Flynn e Custer, eroe su eroe, dunque forza esponenziale; perché allora gli indiani erano ancora i cattivi, e Custer era l’eroe: solo più tardi sarebbe diventato lo sterminatore del popolo rosso. E poi Robin Hood, cappello con penna, casacca col collo aperto e finiture, bene inserite, di pelle, arco appoggiato, e soprattutto, quella calzamaglia. Tutto verde. Il film è del 1938, uno dei primi a colori, proprio per ottimizzare immagine e indicazione. Robin-Flynn, peraltro nobile Locksley, che protegge gli oppressi nella foresta di Sherwood e punisce il tiranno, è più che una rappresentazione, è l’Idea assoluta per “appeal-estetica-missione-azione” dell’eroe e dell’avventura. Il John Wayne detto sopra era un indiscusso leader western, ma non sarebbe stato a proprio agio con la calzamaglia di Errol, sempre che fosse riuscito a infilarsela. E un Bogart… peggio, era più piccolo dell’arco.

Ultima didascalia: Errol Flynn che duella sul ponte del galeone, che tende l’arco fra i merli del castello di Nottingham, che cavalca verso Little Big Horn, è uno dei grandi identificatori, portatori di sogni e di incanti, che il cinema ci ha riservato. Si contano sulle dita di una mano quelli come lui.

Iscriviti