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Storia ‘diversa’ del cinema: Il grande spot – Parte III

Il più grande committente di pubblicità? Hollywood. Che negli anni ’30 e ’40 schierò le sue più grandi star, da Greta Garbo a Gary Cooper, per “vendere” l’amore per la guerra e l’odio contro i comunisti. Funzionò?

Foto: Metro Goldwyn-Mayer/De Carvalho Collection/Getty Images

C fu un momento in cui il maggiore committente, lo Stato, indisse una campagna per due spot che dovevano vendere prodotti particolari: la guerra e l’odio rosso. L’agenzia attivata fu a sua volta la più accreditata, la maggiore: Hollywood. Fu quando un film fece entrare in guerra il popolo americano, e un altro esorcizzò sul nascere il fantasma del comunismo. In entrambi i casi erano stati vani gli interventi dell’intelligenza e della politica. La polemica insinuata qualche anno fa dal film Pearl Harbor secondo la quale il presidente Roosevelt sarebbe stato al corrente dell’attacco proditorio perpetrato dai giapponesi e avrebbe taciuto per scatenare il sentimento di vendetta del popolo e portarlo all’entrata in guerra è davvero piccola cosa di fronte all’abnorme progetto mediatico montato per indurre il solito popolo a entrare in guerra con lo spirito di angelo della giustizia.

Nel 1940 da Washington per Hollywood partì l’input di fare un film che sapesse accendere il tipo di passione che serviva nella circostanza: la passione per la guerra, appunto. Nel Paese ormai tutti erano per l’intervento… tranne la gente. E non era cosa di poco conto. La Warner mise a fuoco i punti fermi dello storyboard. Il plot: sarebbe stata la vicenda di Alvyn York, sergente della prima guerra mondiale, massimo eroe americano. A interpretarlo sarebbe stato Gary Cooper, massimo eroe del cinema, dunque ancora più grande dell’altro. Il sergente York racconta la vicenda di questo contadino del Kentucky mite, timido, ma gran cacciatore e tiratore, obiettore a suo modo di coscienza che, militare, prende invece coscienza, e dopo averci un po’ pensato seduto su una roccia sotto le stelle, accarezzando il suo cane, decide che combattere è necessario per abbreviare e vincere una guerra e salvare così delle vite. In guerra compie azioni umanamente impossibili, uccide quaranta nemici col fucile e fa prigioniere due intere compagnie con l’aiuto di pochi subalterni.

Le metafore c’erano tutte, il dolore della decisione, la conversione, l’azione eroica sovrumana che faceva balenare la grazia con tanto di ammiccamento a un intervento superiore. Gary Cooper, il papà magnifico di tutti i ragazzi, il marito perfetto di tutte le donne, l’amico affidabile di tutti gli uomini, portava per mano l’America in guerra. Convinta. Non ci sarebbe mai stata, nei decenni a venire, un’agenzia capace di concepire e produrre uno spot più efficace e sofisticato, e perfetto. Tralasciando poi la portata del risultato, della “vendita”, se vogliamo dirlo tecnicamente. Troppo eccezionale era il contesto. Naturalmente molte migliaia di quelli portati per mano da Gary in Europa e nel Pacifico non tornarono. Il cinema doveva assumersi parte di quella responsabilità, ma il cinema, ormai è accreditato, può assumersi tutto senza essere responsabile di niente. Come detto sopra, alla fine si ritrae. Sempre di evasione e di sentimento trattasi.

“Ti vendo l’odio rosso”
Qualche anno prima, esattamente nel 1937, Hollywood aveva aderito a un altro importante input di Washington, quello anticomunista. Del resto c’era un forte precedente contrario: una serie, quasi infinita, di film russi di propaganda comunista. Alcune erano “opere” autentiche, come La corazzata Potëmkin, altre erano storie ridondanti, manifesti di maniera che mostravano contadini ingobbiti sull’aratro o sulla zappa, operai asserviti alla catena di montaggio, tutti magrissimi e sofferenti. E mostravano invece i padroni grassi ed eleganti, dediti a stupidi giochi di società e sempre pronti alla crudeltà. Rispetto a quel cinema sovietico, Hollywood era disperatamente indietro sul piano dell’impegno ma inverosimilmente avanti su quello della qualità cinematografica. Così rispose come “ricca occidentale” ponendo la questione sul piano dello stile, dell’ironia e della superiorità. E produsse Ninotchka.

Era la storia di un funzionario comunista donna che corre a Parigi, dove tre suoi collaboratori si sono fatti corrompere dal sistema occidentale (parigino, figuriamoci) e si sono dati alla bella vita. L’inflessibile funzionario incontra un affascinante playboy che la introduce a una vita di ricevimenti, suite eleganti, regali alla moda e bottiglie di champagne, mentre là in fondo, sotto la luna, brilla la Tour Eiffel. Quando la donna torna a Mosca, la vediamo vivere in un appartamentino di due stanze per due famiglie, dove il bagno non ha la porta ma una tenda, e dove un commissario politico, che è l’altro inquilino, ascolta tutto e passa nella camera di Ninotchka per andare in bagno. Il testimone era Greta Garbo, semplicemente l’omologa di Gary Cooper, la donna più affascinante, più elegante, “più tutto” del mondo. Catalizzatrice dei sogni delle donne occidentali. Il comunismo era distrutto – certo non solo da Greta Garbo – in America ne rimanevano solo alcune frange un po’ grottesche, rese innocue, messe all’indice ma non perseguitate, perché potevano comunque rappresentare un segnale di libertà. Tutto questo trasmesso dal cinema, dal suo angolo.

Il Grande Sogno della pace
Il sergente York e Ninotchka erano due immani spot, uno per la vendita della guerra-guerra e l’altro della guerra fredda. Ma Hollywood non poteva essere intesa come una grande agenzia che promuoveva solo quel genere di prodotti. C’erano anche problemi di pace. All’inizio degli anni Trenta, quando l’America e il resto del mondo soffrivano della famosa crisi economica, ancora Roosevelt (longevissimo, quattro volte eletto) accettò di buon grado che Hollywood giocasse il suo ruolo più adeguato, quello di fabbrica dei sogni, quello di grande-anestetico-per-il-momento. Astaire-Rogers e Walt Disney furono fra i maggiori eroi di quella contingenza. I due ballerini nerobiancovestiti erano agili come schizzi, eleganti più dei cigni, sorridenti a oltranza, affrancati dell’eterno happy end, e cantavano le canzoni, sempre felici, dei più grandi compositori, Gershwin, Kern, Porter, Berlin. Che Accademia della gioia di vivere! E si muovevano negli ambienti architettonici, perfetti anche in prospettiva tanto da essere eterni, creati dal genio misconosciuto di Van Nest Polglase. Tutti dispensanti l’innocua felicità necessaria per aspettare tempi migliori. E i sette nani si alzavano all’alba, scavavano diamanti grossi come mele, già tagliati, a sacchi, Cucciolo chiudeva a chiave la porta del forziere e appendeva la chiave a un chiodo esterno. Tornavano a casa al tramonto stanchi e felici, ma cantando, e vivevano come se fossero poveri. Era la trionfale metafora dell’avere ed essere: i diamanti, la ricchezza? Chi se ne frega, valgo io e sto bene in povertà. In attesa del nuovo benessere, che certamente verrà. Tutto questo funzionava.

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