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Storia ‘diversa’ del cinema: Il Grande Nord – Parte II

Seconda puntata dedicata a ‘Dies irae’, il capolavoro di Dreyer. E alle sue ispirazioni pittoriche, che condizioneranno l’estetica di tutto il cinema a venire

Foto: Janus Film

Pittura è una parola chiave dello stile di Dreyer, intesa anche in senso stretto. La storia del cinema presenta una serie di film che hanno abbondantemente attinto all’arte figurativa, che, ben metabolizzata, può rappresentare un valore aggiunto estetico molto prezioso. C’è anche una legittimazione forte, viene da Jean-Luc Godard, secondo il quale Lumière potrebbe essere considerato non solo il primo cineasta, ma anche l’ultimo pittore impressionista. Qualche citazione: il lavoro di Kubrick sui pittori inglesi, e non solo, per Barry Lyndon, con richiami di colori e di luci precisi e capillari a seconda delle esigenze: Tristram Shandy, Gainsborough e Reynolds per la natura e i costumi, il tedesco Menzel per le luci delle candele; i modelli pittorici di Visconti in Senso, dove “riprese” Signorini per la borghesia elegante, Fattori per le battaglie e i soldati, Hayez per il bacio fra la contessa Serpieri e il tenente Mahler; lo “studio” sui maggiori impressionisti, da Manet a Monet, Renoir, Utrillo, cui si applicò lo svedese Bo Widerberg in Elvira Madigan; la pittura sacra rinascimentale che ha ispirato Stevens nel suo La più grande storia mai raccontata, su Gesù; il tributo di Jean Renoir al padre Auguste in Una gita in campagna, l’opera incompiuta (1936) che certamente Dreyer conosceva.

Il regista diede un compito non semplice al suo direttore della fotografia Carl Andersson. Gli disse: “Voglio che il film abbia esattamente le immagini del suo tempo, nell’architettura, nelle facce e nei costumi. E voglio che le luci e le ombre non solo accompagnino i personaggi nel chiaro o nello scuro, ma esaltino i loro sentimenti, l’infelicità, il dolore, l’amore, l’infedeltà, la menzogna, la mistica, la paura e il terrore”. Andersson era uno svedese di Stoccolma con un background singolare, raro. Dopo aver lavorato come operatore nel suo Paese, trasferitosi in Danimarca, negli anni Trenta si era specializzato in corti pubblicitari. Nulla dunque di più diverso dall’estetica di un Dreyer, ma l’operatore aveva anche una profonda cultura pittorica, insomma era titolare di un mix che poteva produrre un risultato particolare. Alle indicazioni di Dreyer rispose con un nome: “Rembrandt”. Dreyer ci aveva già pensato, ma aveva dei dubbi. Disse: “È un olandese, un fiammingo”. Andersson ribatté: “Mi scusi maestro, ma io conosco i suoi film, capolavori certo, ma, mi permetta: un po’ cupi. Se prendiamo un pittore della zona baltica, il pubblico si deprime troppo. Rembrandt non è un meridionale, come olandese ci mette una luce solo un po’ più forte della nostra, e poi molti dei suoi dipinti sono proprio vicini agli anni del nostro racconto, terzo e quarto decennio del 1600”. Dreyer si convinse. Cominciarono a lavorare. Studiando l’opera del pittore prendevano appunti. Dopo molta dialettica selezionarono tre quadri: La lezione di anatomia del dottor Tulp, Ritratto di Cornelis Anslo e di sua moglie Aaltje Schouten e I sindaci dei drappieri. I quadri si trovavano rispettivamente in musei dell’Aja, di Berlino e di Amsterdam.“Dovremmo vederli dal vivo”, disse l’operatore. “Credi che non mi piacerebbe?”, rispose il maestro. “Ma il budget è ristretto, ci ho messo dieci anni a raccoglierlo, dovremo accontentarci delle riproduzioni. E poi c’è la guerra”.

Per scenografia e costumi occorre una scelta appropriata, professionisti che abbiano quel tipo di cultura. Il regista intende privilegiare confronto e dibattito, dunque assume artisti in coppia: Fribert e Aaes per la scenografia, Sandt Jensen e Thomsen per i costumi. Tutti sanno che quel segmento è decisivo. Sono consci di partecipare a qualcosa che farà storia. E l’impegno è assoluto. C’è da rappresentare il tribunale che giudicherà la strega. Lavorano sui volti: i modelli di Rembrandt hanno tutti, rigorosamente, la barba, indossano abiti neri, per fortuna portano gorgiere e colletti bianchi a contrastare. E molti hanno il cappello. Dreyer rinuncia a qualche barba e ai cappelli. Si studiano le luci, intensità e posizione, e si compone la giuria. Si preparano le inquadrature, con l’ascetico Absalon nel mezzo. Molti fotogrammi saranno semplicemente dei Rembrandt in bianco e nero. La scelta degli attori, in un certo senso, è una scelta “pittorica”. Modelli che si devono inserire nei vari contesti. Al pastore Absalon spetta un’immagine dura e ascetica, un disegno statico da giudice senza dubbi e al centro di tutto. Caratteri che vengono rinvenuti nel sessantottenne Thorkild Roose, un attore di teatro con alle spalle un bagaglio articolato e prestigioso. Nel 1901, a ventisette anni, ebbe il suo primo piccolo ruolo, tre anni dopo era uno dei nomi di punta dell’Accademia d’arte drammatica del Teatro Reale di Copenhagen. Ed è lì che Roose concentrò gran parte della sua attività di attore e uomo di teatro in generale. Fu insegnante, direttore artistico e regista. Fra i lavori fondamentali della sua gestione va ricordata la rappresentazione della Danza della morte di Strindberg. Roose aveva un’impostazione accademica, “cerebrale”, con una dizione classica, perfetta. Insomma era Absalon. Nel cinema, negli anni Dieci e Venti, aveva interpretato ruoli da “antagonista cattivo”, come in Den sorte kansler di August Blom. La parte del rigido pastore in Dies irae sarebbe stato il ruolo più importante della sua vita. Quello che lo avrebbe consegnato alla storia del cinema.

Anche il ruolo di Anne non è semplice, non basta una bella figura giovane e un’espressione intensa. Ci vuole un volto dietro il quale poter leggere tutte le potenzialità di dolore e ribellione, qualcosa che ha sedimentato a lungo, qualcosa di estremo che può esplodere anche se non esploderà. Dopo una serie di audizioni si arriva a Lisbeth Movin. Il suggerimento viene da Roose, che ha conosciuto l’attrice proprio all’Accademia del Teatro Reale, del quale Lisbeth è già uno dei nomi emergenti. Ha scarsa esperienza di cinema, ma non c’è dubbio che imparerà. Quando comincia le riprese di Dies irae Lisbeth ha venticinque anni. Grazie alla regia di Dreyer, ma soprattutto al proprio talento naturale, fornisce un’interpretazione perfetta. Il registro che le viene imposto è complesso, si tratta di esprimere sentimenti profondissimi dichiarandoli solo in superficie, ma tenendoli dolorosamente compressi. Movin passa dalla sofferenza immobilizzata per l’incomprensione (e l’inadeguatezza) del marito troppo vecchio alla paura dettata dall’ostilità della suocera, alla passione “naturale” per il giovane che le squarcia una prospettiva nuova e pericolosa di vita. Nel 1945 sposerà il regista Lau Lauritzen e sarà protagonista in film meno memorabili di Dies irae.

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