Storia ‘diversa’ del cinema: Il Grande Nord – Parte I | Rolling Stone Italia
Il principe di Danimarca

Storia ‘diversa’ del cinema: Il Grande Nord – Parte I

La produzione scandinava è uno dei movimenti più importanti e alti del ’900. Cominciamo dal danese Carl Theodor Dreyer e dall’analisi del suo capolavoro: ‘Dies irae’

Storia ‘diversa’ del cinema: Il Grande Nord – Parte I

‘Dies irae’ di Carl Theodor Dreyer (1943)

Foto da Wikipedia

Seppure nell’ambito di una storia del cinema diversa, non convenzionale, ci sono dei momenti classici che possiedono una franchigia. Non sono suscettibili di interpretazioni. Ci sono movimenti talmente precisi e armonici che rimangono quelli. Vanno considerati alla stregua di legislatori. Si tratta di estetiche e poetiche che hanno creato dei precedenti che non ammettono evoluzioni, o trasformazioni, o licenze. Sarebbe come discutere l’Odissea o l’Amleto: certo, lo puoi anche fare, ma ti ritrovi in un esercizio sterile, un’esplorazione che si esaurisce presto, non lascia traccia. Uno di questi grandi momenti, di questi “assoluti”, è il cinema del Nord. Uno dei titoli esemplari è Dies irae (Vredens dag) di Carl Theodor Dreyer, un film perfetto a rappresentare quasi tutte le estetiche e le poetiche, appunto, tutti i codici di un cinema che si pone, come detto sopra, in una posizione di vertice che trascende lo stesso concetto di cinema per porsi ad altri livelli. Tutto questo verrà raccontato analizzando quel film danese del 1943. La comprensione di Dies irae è la comprensione di un movimento.

Un criterio che non può essere ignorato rispetto a un film antico è la sua vedibilità possiamo dire “postuma”. Significa rapportare quel film a un tempo che non è il suo. Dies irae ha dunque ottant’anni. Cos’è rimasto di quello che è ritenuto un capolavoro ufficiale del cinema del mondo come eco ancora ascoltabile, come eredità spendibile, e come segnale ancora visibile? E poi c’è il ruolo “globale” assunto dal cinema, ritenuto da molti come “l’arte del ’900”. Insomma, il cinema sarebbe il titolare pressoché assoluto dell’educazione sentimentale e culturale in questa fase storica. Dies irae entra con tutti i diritti nella cerchia, ridottissima, dei film che trascendono il cinema per diventare arte generale. “Arte generale” non significa solo grande film. Ci sono pellicole dalla natura squisitamente cinematografica, narrazioni perfette per ritmo e montaggio, per dialoghi e interpretazioni, per contenuti e sentimenti rappresentati. Ma titoli come La corazzata Potëmkin, L’Atalante, Il porto delle nebbie, Amanti perduti, Ossessione, Ladri di biciclette, Il settimo sigillo, 2001: Odissea nello spazio, Amarcord (e – pochi – altri, naturalmente) sono opere d’arte generale, appunto, del ’900. Ogni fotogramma di questi film potrebbe legittimamente riempire le sale di un Beaubourg.

Dies irae fa parte di questa eccellenza. Nel tempo il titolo ha certamente perduto una parte, non grande, della sua vedibilità. Naturalmente risulta un film antico, pensato in quel tempo e in quel momento culturale e storico, così come risulta precisamente collocato un Guernica, opera d’arte perfetta per il 1937 ma custode tuttora di contenuti universali senza tempo. Inoltre, la forza espressiva di Dies irae, così come dell’opera di Picasso, possiede gli strumenti per produrre ancora un impatto sentimentale esclusivo e allarmante, quasi violento. Lavori buoni per una sindrome di Stendhal. Il corpo essenziale della storia e del linguaggio resiste, soprattutto resiste il quanto non misurabile e quell’elemento chimico non definibile che producono il passaggio da “capolavoro normale” a opera di incanto e sortilegio, qualcosa che si fonda con la nostra radice ancestrale, consolidandosi nel fondo degli strati della coscienza e della memoria come codice esclusivo della nostra cultura e della nostra estetica. Essendo cinema, va bene anche il termine “magia”. Estetica, metafore, simboli, insomma educazione e pensiero: pochissimi film di tutta la storia del cinema sono riusciti a rappresentare, come Dies irae, una massa così vasta e complessa di contenuti.

"Dies irae", 1943. Panoramica

Il soggetto. Danimarca, 1623. I personaggi: Absalon, anziano pastore, ha sposato in seconde nozze Anne, molto più giovane di lui. Absalon si ritrova a giudicare Marta di Herlof, accusata di stregoneria. Ma Absalon nasconde, come si dice, uno scheletro nell’armadio: aveva messo a tacere le accuse contro la madre di Anne, a sua volta accusata di stregoneria. Marta ne è al corrente. Arriva Martin, primo figlio di Absalon, incontra Anne, la matrigna, per la prima volta, i loro sguardi sono più che eloquenti. C’è anche Merete, madre di Absalon, che incombe su tutto, nulla le sfugge, e nel profondo odia la nuora. Marta viene interrogata e torturata dai giudici. Scongiura il pastore di aiutarla, come aveva fatto per la madre di Anne. Absalon, senza nessuna pietà, non muove un dito. Martin e Anne si sono innamorati. I due si isolano nel bosco. La strega, urlante di rabbia verso Absalon, viene bruciata sul rogo. Anne conosce tutte le verità e ha preso a odiare il marito. Desidera la sua morte. Si accredita, lei figlia di strega, come strega a sua volta. Confessa ad Absalon il suo amore per Martin. Il vecchio pastore si porta la mano sul cuore e muore. Ma è Merete a determinare i destini. Accusa la nuora di stregoneria. Martin, debole, non ha la forza di difendere Anne, che, abbandonata, delusa e travolta dal pregiudizio, confessa un delitto che non ha commesso.

La storia del pastore Absalon e di sua moglie Anne vive in Danimarca nel 1623. In quell’anno il luteranesimo è religione di stato da meno di un secolo, dunque non ancora del tutto consolidata. L’angoscia attonita sospesa sulle teste dei personaggi di Dies irae è la stessa dei danesi, e di Dreyer, nel 1942. Il 9 aprile del ’40 i nazisti hanno invaso la Danimarca. Il Paese è culturalmente neutrale, una neutralità che viene formalmente rispettata da Hitler, tuttavia la Danimarca è di fatto occupata. La situazione è semplice: i danesi si affidano alla clemenza del vincitore. È in quel contesto che Dreyer dirige il suo film. La ribellione di Anne nei confronti di Absalon, che intende essere padrone del suo corpo e della sua anima, può anche essere letta come segnale intimo e imploso di dolorosa accettazione dell’oppressione tedesca.

Raccontando Dreyer non si può non rifarsi all’espressionismo, quel movimento, artisticamente decisivo, sviluppatosi in Germania fra il 1905 e il 1930, dunque negli anni di maggiore energia creativa e di più forte curiosità ed entusiasmo del regista. L’espressionismo, applicato all’inizio soprattutto alle arti figurative, “invase”, via via, la letteratura, il teatro e poi il cinema: significa eccesso di espressione, nei gesti e nell’estetica, soprattutto attraverso l’uso delle luci e, ancora di più, delle ombre. Come sempre il cinema rappresentò un’evoluzione anomala e disordinata, come sempre si appellò alla propria fisiologica franchigia del non rigore, perché se applichi l’eccesso di espressione solo alla scrittura, o solo alla pittura, o solo al teatro, allora ti muovi in confini che favoriscono una disciplina; ma se quella disciplina la porti nel cinema, devi vedertela con una gestione complicata e articolata, troppo: la musica, l’immagine, la scrittura, tutti insieme. Insomma devi far convivere, tenere a bada tutto in un eccesso, e non è facile. L’espressionismo poteva rappresentare una pratica utile nei film muti, dove l’eccesso andava a compensare e a soccorrere la mancanza della parola. Ma col “parlato” le misure andavano pesate con grande attenzione, lo spartiacque fra un’opera d’arte di energia maggiore e un’anarchia estetica grottesca era molto sottile. Un’opportunità tanto efficace, nel cinema, fu spesso gestita da autori inadeguati.

Anche Hollywood la importò, con risultati contrastanti. Spesso si assisteva a sequenze “normali”, di azione e dialogo di basso profilo, con coni di ombre che rilanciavano su mura immense un Capitan Blood, dottore, che si aggira in un ambiente più simile a una sala d’armi regale che a uno studio medico. Anche in Quarto potere lo stesso Welles esaspera una riunione di redazione fra chiari e scuri drammatici, alla Ivan il Terribile. Ma si sa, a Welles era riconosciuta una forte franchigia. Il suo non era errore, era anarchia geniale. Dreyer invece seppe tenere e bada l’“espressione”, anzi la assunse con grande naturalezza, facendone parte integrante, e nobile, della sua poetica e della sua estetica, registrandone l’intensità a seconda delle opere e diluendola dopo la sua prima fase. Il Dreyer espressionista è soprattutto quello dei “muti” iniziali e di Vampyr, dove la seduzione espressionista è davvero irresistibile, applicata com’è a un contenuto da visione, inquietudine e delirio, con un’apertura all’horror, e dove il tutto deve vivere sulle atmosfere, dunque proprio sulle luci e sulle ombre. Dies irae è perfetto a rappresentare quasi tutte le estetiche, le poetiche e i codici di un cinema, quello del Nord, che si pone in una posizione di vertice che trascende lo stesso concetto di cinema per assestarsi su altri livelli. La comprensione di Dies irae è la comprensione di un movimento.

Col luteranesimo così fisicamente, “famigliarmente” presente, persino oppressivo, Dreyer deve dunque confrontarsi. Una dottrina che separa con tanto rigore il potere spirituale da quello temporale, che indica il privilegio assoluto di coloro che appartengono alla chiesa e vivono nella fede autentica, viene intesa dal regista come una disperata discriminazione. Un sentimento che Dreyer trasferisce nelle opere, soprattutto in Dies irae, e che viene rappresentato come ribellione all’intolleranza di quella fede che si trasforma in chiesa e produce dogmi per delegare la felicità a un aldilà misterioso e tenebroso, forse giusto ma certamente non solidale. Il regista rileva la volontà, magari disperata, dell’uomo di riaffermare la propria individualità, e anche la speranza come mezzo per ottenere libertà ed emancipazione, seppure attraverso sofferenze anche estreme. Un testimone che successivamente passò a un altro grande nordico, Ingmar Bergman, figlio di un pastore protestante, che rappresentò nelle sue opere la stessa angoscia e lo stesso mistero, non accettandoli ma cercando di esorcizzarli e di combatterli. Il cavaliere Antonius Block, nel Settimo sigillo, giocando a scacchi con la Morte sa che sarà destinato a perdere; ma, ritardando, salverà le vite di una famiglia innocente.

Fine della prima parte