Riformuliamo leggermente la domanda: vale la pena sopportare tanto rumore per nulla pur di vedere Cillian Murphy sbroccare in modo spettacolare e magistrale?
Ci sono diversi film che si contendono lo spazio sullo schermo in Steve, disponibile su Netflix, ma uno di essi ha chiaramente le migliori possibilità di vincere questa competizione all’ultimo sangue. Abbiamo un dramma affollato di tematiche sociali ambientato a metà degli anni ’90, incentrato su un’istituzione di nome Stanton Wood che cerca di aiutare gli adolescenti a rischio e che sta per subire un taglio dei fondi. Il nostro primo approccio a questo mondo avviene attraverso una troupe televisiva, arrivata per realizzare un servizio di cronaca; definire la reporter invadente (Priyanga Burford), che chiede con voce secca se questo non sia “una costosa discarica per i rifiuti della società, un intervento educativo radicale e progressista, una sala d’attesa per [il carcere], o forse… tutto questo insieme” una caricatura, o questo formato di mockumentary goffo, sarebbe gentile. Più tardi, quando un pomposo rappresentante parlamentare (Roger Allam) si presenta per una foto, si percepisce il tentativo di una satira più ampia che cerca di farsi strada anche attraverso il fango.
In generale, l’attenzione sarebbe concentrata sui ragazzi stessi e, a suo merito, il regista Tim Mielants ha riunito un gruppo incredibilmente variegato di attori emergenti per interpretare tutti i giovani protagonisti. Alcuni, come il volubile Jamie (Luke Ayres), che ama seminare zizzania, e Tarone (Tut Nyuot), un attaccabrighe accusato di aver aggredito un membro dello staff, sono più approfonditi rispetto ad altri. Anche loro sono relegati a poco più che comprimari e rappresentazioni simboliche di giovani travagliati usciti direttamente da un dramma della BBC. Ironia della sorte, lo studente che finiamo per conoscere meglio è il più misterioso: Shy (Jay Lycurgo, l’arma segreta del film). È il ragazzo sensibile, una bomba a orologeria che soffoca il mondo con una colonna sonora costante di drum and bass ascoltata con il walkman. Il suo nome (in italiano “timido”, ndt) è ben meritato, anche se i cenni di un passato violento e la rabbia che lo vediamo sfogare su una sedia suggeriscono un tumulto interiore destinato a sfociare nell’autodistruzione.
Va sottolineato che nessuno dei suddetti troll mediatici, politici untuosi o giovani arrabbiati si chiama Steve, e il fatto che il film e il preside interpretato da Cillian Murphy abbiano lo stesso nome rivela che il vincitore di questa battaglia narrativa è proprio quest’altro personaggio. Steve è diversi tipi riconoscibili in uno. È la figura autoritaria comprensiva, il tipo di insegnante meraviglioso alla Mr. Chips che cerca di abbattere le barriere dei suoi studenti e di parlare con loro al loro livello. È la voce della frustrazione dello spettatore di fronte all’incapacità della società di prendersi cura di chi ne ha più bisogno, soprattutto quando perde la calma sentendo i benefattori di Stanton Wood annunciare che hanno venduto la proprietà. Ed è un casino totale, il tipo che prende pillole, beve di nascosto superalcolici fa occasionali pause caffè con aggiunta di ossicodone.
In altre parole, Steve è un personaggio complesso da interpretare, e l’attore premio Oscar si lancia in ogni espressione affranta, in ogni sessione di mentoring gentile, in ogni momento di frenesia mentre il caos regna intorno a lui, in ogni passo incerto verso l’automedicazione fino all’oblio. Murphy cerca di sfruttare al massimo questa vetrina, sia nei suoi momenti da solista che nei suoi scambi con la collega Tracey Ullman e la terapeuta Emily Watson. (Purtroppo non c’è nulla che possa eguagliare la scena mozzafiato tra Murphy e Watson nel precedente film del regista, Piccole cose come queste del 2024, una collaborazione di gran lunga superiore con questi grandi nomi. Se non l’avete ancora visto, vi consigliamo di recuperarlo). Come ha dimostrato in Oppenheimer, i suoi silenzi possono dire molto, e alcuni dei momenti migliori di Steve consistono semplicemente nel guardarlo mentre pensa.
Eppure, poiché lo stress di non poter aiutare questi poveri ragazzi, di proteggerli dal distruggersi a vicenda, di cercare di mantenere in funzione questa struttura tanto necessaria e di garantire al suo staff che sono al sicuro dall’instabilità che i loro assistiti portano con sé non è in qualche modo sufficiente, il film sente il bisogno di dargli anche un passato traumatico. Ma il tutto è gestito in modo così approssimativo e maldestro, e sembra così scadente, che potresti ritrovarti ad arrabbiarti insieme ai giovani del film. Nemmeno Murphy riesce a rendere tutto ciò credibile, e Steve ti ripropone ancora una volta quella domanda iniziale: vale la pena guardare un grande attore soffrire in un film mediocre? La tua risposta potrebbe variare. Noi conosciamo la nostra.








