Sopra il letto di una camera d’albergo è appeso un quadro con la famosa ragazza con gli occhiali da sole di Patrick Nagel, e quel dettaglio è sufficiente a dettare il tratto estetico del film. Sono gli anni ’80 con il loro segno grafico, sexy, aggressivo anche. Sotto il vestito niente di Carlo Vanzina compie quarant’anni e torna in sala (il 4 agosto con Cat People), e pure lì si trova un segno che è stato malamente archiviato. Preceduto ormai da quel titolo proverbiale, e dalla connotazione titillante (dunque trash) che si porta dietro, ha fatto perdere la sua traccia di opera a suo modo sperimentale, sicuramente più elegante di quel che si vuole ricordare.
Il fratello gemello (Tom Schanley) di una modella americana che vive a Milano (Nicole Perrin) arriva in città perché sente (letteralmente) che la biondina è in pericolo. Si trova in un giro di omicidi seriali. Il circoletto del prêt-à-porter negli anni rampanti del Made in Italy trema. La polizia (nella figura del commissario interpretato da un tenerissimo Donald Pleasence) indaga. C’è il sangue, c’è il sesso, c’è Renée Simonsen, all’esordio, che fu sogno erotico di una generazione o due.
Renée Simonsen e Tom Schanley in palestra. Foto: Cat People
“Le sfilate sono stagionali, i delitti no: si uccide in estate, in autunno e in inverno”. È uno dei tocchi di Enrico Vanzina in scrittura (insieme al fratello e a Franco Ferrini, sulla base del romanzo omonimo di Marco Parma), che riempie questo giallo con venature erotiche di piccoli dettagli letterari. La matrice sta nel sexy thriller di De Palma (serve dirli? Vestito per uccidere e Omicidio a luci rosse), e difatti a De Palma i Vanzina rubano l’essenziale Pino Donaggio. Ovviamente non possono (non si può) rifare De Palma, ma l’aggiornamento all’Italia – e a Milano – crea un campo di indagine, e di gioco, a suo modo stimolante, soprattutto rivisto oggi.
Sotto il vestito niente è, per regia, uno degli esiti più felici di Carlo Vanzina, due anni dopo il seminale Sapore di mare – ma con altri cinque (!) film in mezzo – e cinque prima di Tre colonne in cronaca, probabilmente i suoi film più “d’autore” (e il secondo altrettanto colpevolmente dimenticato). La scena della modella col caschetto in stile Valentina di Crepax e il vestito blu che fugge dall’assassino nel Quadrilatero notturno (dove non si trova un taxi!) è il virtuosismo gentile di chi ha giocato sempre con riservatezza e consapevolezza, senza mai fare l’Autore – ma girando spesso assai meglio di tanti colleghi autoproclamatisi tali, soprattutto in quegli anni critici per il nostro cinema.
Catherine Noyes nella scena dell’inseguimento notturno. Foto: Cat People
Quasi nessuno ha saputo riprendere Milano – la Milano di quegli anni – con questa precisione. Tra le altre definizioni stanche che si porta dietro il film c’è quella di essere il racconto della Milano da bere, la Milano di Craxi, la Milano con l’archetipo dello yuppie che “vende gioielli e scopa modelle” (cit. dal film), e che ovviamente sniffa appena può. C’è anche quella Milano lì, ma anche qui è tutto un po’ più ragionato. La Milano di Sotto il vestito niente è anche lei grafica, stilizzata, sfrontata. È una ragazza di Nagel con gli occhiali da sole.
C’è già il culto delle palestre e ci sono le entryways of Milan rese celebri, trent’anni dopo, da un table book oggi molto popolare soprattutto fuori Cerchia, dove quegli ingressi ce li sogniamo. C’è la statua del Manzoni e il disco di Pomodoro. C’è la Stazione Centrale (sfondo della sfilata di Moschino: wow!) e la Scala (anche se le scene ambientate all’interno del teatro sono state girate, così a occhio, al Ponchielli di Cremona). Ci sono i primi self-service e gli eterni cantieri, che pare di vedere la Milano cementizia di oggi.
La sfilata di Moschino alla Stazione Centrale. Foto: Cat People
Se c’è una cosa, fra le tante, che va riconosciuta ai Vanzina, è il loro girare sempre on location. Dunque il parco americano che si vede all’inizio del film, dove il biondo protagonista lavora come guardaboschi, è il vero Yellowstone. Milano, dicevo, è più Milano che mai. Pure la (irrilevante) gita a Lugano sta a dirci che i due fratelli ci tengono a che ogni dettaglio sia al suo posto.
Certo, alla base di questo film c’è soprattutto un gialletto überpop che si prende – volutamente e saggiamente – ben poco sul serio. Un garbuglio in cui finiscono forbici, diamanti, roulette russe, persino un’impennata saffica. Fino a una (forse un po’ goffa) exposition finale per bocca dell’assassino, che serve a risolvere rapidamente il caso – e allo spettatore a unire tutti i puntini. Ma anche questo è il tratto consapevolmente naïf, come quei ritratti di modelle felici, di due che il cinema l’hanno sempre fatto bene.
