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Sì: ‘Il buco’ su Netflix è il film fatto apposta per la quarantena

Non gridiamo al capolavoro. Ma l’opera prima dello spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia, appena arrivata sulla piattaforma, racconta fin troppo bene il momento che stiamo vivendo

C’è chi va dicendo in giro (cioè: sui social) che ci troviamo di fronte a un’opera somma. Io no, ma m’accodo alla seconda inevitabilissima tesi: Il buco, su Netflix da venerdì, è il film che meglio allegorizza, per profezia o più probabilmente per culo, il nostro presente di bloccati, quarantenati, socialmente distanziati. Messo da parte il lato tragico dell’emergenza, fossi il regista – lo spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia, all’esordio nel lungo – gongolerei, e mi sentirei appunto un profeta, o brinderei (previo ordine di alcolici online) a un destino così fortuito e così fausto. Uscito in Spagna alla fine del 2019, Il buco sbarca nel mondo nell’era dell’isolamento, e mai momento sarebbe potuto essere più (disgraziatamente) propizio.

Qualche cenno di trama, senza spoiler, per chi ancora non l’ha visto. Un uomo entra in una specie di torre-prigione in cui si sta in due per piano; al centro di ogni piano c’è questo buco, a creare una grande tromba delle scale che collega tutti i livelli; di mese in mese, ci si trova in alto o in basso sulla scala, a seconda di norme imperscrutabili; dentro al buco che tutto collega passa, negli orari dei pasti, una grande piattaforma che poi è una tavola imbandita: imbandita, almeno, per chi sta al piano 1, chi è costretto agli ultimi gradini trova solo piatti vuoti. Si potrebbe dire che il piano 1 è abitato da quelli che, di questi tempi, trovano la semola di grano duro e il lievito al supermercato e possono impastare pizze, francesini, sfincioni; in fondo, ci sono invece quelli che grattano il fondo della dispensa, sperando in un’ultima latta di cannellini già lessati. Ma questa non è la storia del film. Il film è una cosa tra Parasite e Dino Buzzati (Sette piani, qua moltiplicati all’infinito o quasi), privo della spada affilata del primo e della grazia umana del secondo, ma parimenti universale. In questi casi, ci si chiede com’è che queste idee non vengono mai al nostro cinema, chiuso ancora nei suoi tinelli. Ma anche questa è un’altra storia.

Il dettaglio che, per profezia o più probabilmente per culo, definisce il tempo che stiamo vivendo – tutti a fare la stessa cosa forse per la prima e ultima volta nella nostra storia – è consegnato dal personaggio di Antonia San Juan, già magnifica trans per il magnifico Pedro in Tutto su mia madre. A un certo punto – si trova insieme al protagonista circa a metà della gerarchia del buco – propone che quelli che stanno al piano superiore preparino due piatti, mettendoci la giusta quantità di cibo tra quello rimasto sulla tavola più o meno imbandita, a seconda del livello in cui arriva; quelli al piano inferiore devono mangiare solo le loro due porzioni, senza toccare nient’altro; e, quindi, preparare altri due piatti per quelli di sotto, che a loro volta faranno lo stesso, fino all’ultimo piano; soltanto in questo modo tutti avranno da mangiare. È un atto di «solidarietà spontanea», dice la donna, che però di spontaneo non ha niente. La spontaneità, lo vediamo in queste settimane, è solo egoista, cinica, rabbiosa. Mors tua, farina mea.

Visto con gli occhi di noi quarantenati, il personaggio di Antonia San Juan è anche e soprattutto il censore che si mette alla finestra (sul ciglio del buco, vabbè) e pontifica, giudica, punta il dito: prima contro i ragazzini che giocavano a basket nei parchetti, poi contro i vecchi che non vogliono stare a casa, adesso contro i runner. E questa no: non è un’altra storia. La scala sociale del Buco è la stessa verticale impazzita che scaliamo ogni ora sui social, tra menefreghisti e moralizzatori, distanti ma uniti nel sentirsi in guerra. Non lo siamo: stiamo affrontando una (gravissima) emergenza sanitaria, dovremmo essere abbastanza grandi per capirlo e per farlo. E invece.

In questo senso, allora, sì: Il buco è il film fatto apposta per questi giorni. È zarro, come sono zarri quasi tutti i prodotti “made in Spain”, ma è zarro anche perché vuole essere popolare, e ci riesce. È zarro come siamo noi adesso, pavidi e sbracati. È zarro pure nelle citazioni. Ogni persona che entra nel buco può portare una sola cosa con sé. C’è chi sceglie un coltello, chi un bassotto. Il protagonista sceglie un libro: il Don Chisciotte (metafora! metafora!). «Qui nessuno aveva mai portato un libro, qui a nessuno interessano i libri», gli dice la solita donna di prima. In questi giorni, stiamo vivendo esattamente questo. All’inizio dell’isolamento nel nostro buco, ci siamo tutti detti che avremmo finalmente attaccato Musil, o riletto Dostoevskij, o anche solo cominciato Spillover per avere argomenti alle cene, quando si potranno fare le cene. Abbiamo capito molto presto che invece non sarebbe andata così. Qui dentro a nessuno interessano i libri. Siamo troppo occupati a capire come criticare gli altri mentre pensiamo a sopravvivere, in coda fuori dall’Esselunga.

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