Short Culture Cuts #3: Hemingway scanzate, oggi le storie più brevi del mondo le scriviamo noi | Rolling Stone Italia
Il vecchio e il meme

Short Culture Cuts #3: Hemingway scanzate, oggi le storie più brevi del mondo le scriviamo noi

Attribuito a Hemingway (ma ormai sappiamo che non è andata così), il romanzo più corto mai scritto era solo l’anticipazione delle “caption” da social. Perché oggi tutto è short

Short Culture Cuts #3: Hemingway scanzate, oggi le storie più brevi del mondo le scriviamo noi

Ernest Hemingway durante un safari in Kenya nel 1952

Foto: Earl Theisen/Getty Images

Una serie a puntate, in collaborazione con MAX3MIN – Very Short Film Festival, per riflettere su cosa è, oggi, corto. Spoiler: tutto.

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Nessuno ha mai saputo se quella della storia più breve del mondo fosse verità o leggenda. O forse come sono andate le cose ormai è noto, ma che importa. Probabilmente lo sapete già, nel caso lo ripeto, amen. Leggenda (appunto) vuole che Ernest Hemingway – era all’Harry’s Bar? o da Luchow’s? – giocò una scommessa con alcuni amici. “Non sarai mai capace di scrivere una storia in sei parole”, dicevano quelli, e invece lui era Hemingway, perciò prese penna e tovagliolino di carta ed ecco le sei parole, ecco la storia perfetta.

For Sale: Baby shoes, never worn”. Una storia perfetta e tristissima, anzi straziante. C’è dentro, e dietro, un mondo, una famiglia, quasi un piccolo film capace di raccontare un’epoca, una società tutta. E chi se ne frega, ripeto, se non è di Hemingway per davvero. Pare sia comparsa la prima volta, praticamente identica, su un giornale all’inizio del ’900, e poi riadattata in mille versioni, fino ad arrivare alle riviste (vedi il New Yorker) che ancora lanciano sfide ai loro autori e lettori per scrivere le storie più brevi di sempre, e addirittura in un annuncio online, anch’esso forse vero o forse no, che recitava “Wedding dress for sale – worn once by mistake”. Un’altra storia perfetta, un altro mondo parimenti straziante, ma in modo di certo più tragicomico.

Senza scomodare i Quasimodo o gli haiku, la tradizione prosegue dunque tutt’oggi, ma nessuno ci fa più caso. O meglio, non sono più sfide tra scrittori, scommesse tra amici al tavolo di un bar. Le storie più brevi – però certamente non perfette – le scriviamo tutti i giorni sui social, nelle dida, nei meme. Sono piccoli tableux vivants (spesso troppo vivants, mitomani come sono, come siamo) che uno scrittore all’inizio del secolo scorso non avrebbe mai immaginato.

Dietro qualunque post, o quasi, c’è la stessa logica (o almeno c’era, prima che i social diventassero troppo verbosi, che i tweet da 140 passassero a 280 caratteri, e così via). E cioè: descrivere nel minor numero di parole possibile un mondo, una vita, un romanzo.

Per questo, tra tutte le storie brevi e lunghissime del nostro tempo, la mia preferita resta quella fatta di sole due parole: “Caption this”. Quelle due parole scritte sotto una qualsivoglia immagine pubblicata online sono l’invito più diretto a inventarsela, una storia; una storia che però è già tutta lì, piccolissima e grandissima. Sono sicuro che Ernest Hemingway ci sarebbe andato a nozze, con quel “Caption this”. E avrebbe scritto la dida, di sei parole, assolutamente perfetta.

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