Senza William Friedkin non ci sarebbe stata la New Hollywood | Rolling Stone Italia
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Senza William Friedkin non ci sarebbe stata la New Hollywood

Per 'Il braccio violento della legge' ha girato LA scena di inseguimento per eccellenza e con 'L'esorcista' ha fatto molto di più che inventare il blockbuster horror: il regista premio Oscar era di una generazione più vecchio della maggior parte dei “film brats”, ma con quei titoli ha dato il via alla rivoluzione

William Friedkin a Milano nel 2019

William Friedkin a Milano nel 2019

Foto: Getty Images

Non è una semplice scena di inseguimento, è LA scena di inseguimento per eccellenza: una corsa a rotta di collo contro il tempo tra un criminale su una metropolitana sopraelevata e un poliziotto in un’auto requisita che sfreccia per le strade di Brooklyn a velocità assurde.

Il cattivo lavora per un cartello europeo della droga, ha appena sparato a un agente durante la sua ronda pomeridiana e ora punta la pistola alla nuca del macchinista. Il “bravo ragazzo” – quelle virgolette sono d’obbligo quando parli di Jimmy “Popeye” Doyle del NYPD – si sta facendo strada nel traffico, schivando a malapena i pedoni e cercando di evitare i veicoli abbastanza sfortunati da trovarsi sul suo percorso. Continuiamo a saltare dagli ostaggi sui binari sopra all’improvvisato demolition derby per le strade di Bensonhurst sotto. La telecamera fissata al paraurti anteriore della Pontiac Le Mans in fuga offre agli spettatori un’angolazione abbastanza viscerale e vertiginosa da far venire il mal d’auto. Dopo quasi sette minuti di inseguimento, la metropolitana si schianta, il delinquente esce e Doyle, seguendolo a piedi, lo mette all’angolo sulle scale. Il truffatore si gira. Il nostro eroe gli spara un proiettile alla schiena.

Probabilmente avete visto questa scena del Braccio violento della legge (The French Connection), il leggendario crime thriller di William Friedkin, un milione di volte. Ecco che arriva la milionesima più una. Perché come potreste non riguardarvela ancora in questo momento?

Se Friedkin, che se n’è andato lunedì all’età di 87 anni, avesse realizzato soltanto questa sequenza super adrenalinica – tanto più che il lungometraggio si sarebbe poi aggiudicato l’Oscar come miglior film nel 1971 (e gli sarebbe valso anche la statuetta per la regia) – avrebbe comunque avuto il suo spazio nella Hall of Fame dei registi più rivoluzionari di Hollywood.

Ma Friedkin era molto più dell’uomo che ha fatto da pioniere a set d’azione come l’inseguimento del Braccio violento o quello che ha praticamente inventato il moderno blockbuster horror con il film da far girare la testa e vomitare zuppa di piselli che ha realizzato subito dopo. Era un drammaturgo maniacale di prim’ordine, un regista che si è fatto le ossa alle origini della tv in diretta e con i primi documentari, poi ha utilizzato le tecniche che ha imparato per ravvivare ed elevare due generi popolari in pop art dallo stile asciutto. Friedkin era di una generazione più vecchio della maggior parte dei “film brats” e di altri autori americani emergenti che avrebbero trasformato gli anni ’70 in una seconda età dell’oro. Ma non sarebbe esistita la rivoluzione della New Hollywood o l’era del cinema “evento” sotto steroidi che l’ha seguita senza di lui.

Il suo curriculum prima del Braccio violento della legge sembra un gioco di nomi dello showbiz di fine anni ’60: Alfred Hitchcock (ha lavorato a un episodio della serie tv del regista di Psycho), Sonny e Cher (la coppia star di Good Times del 1967), royalty del teatro britannico (The Birthday Party di Harold Pinter), adattamenti Off-Broadway (Festa per il compleanno del caro amico Harold, in originale The Boys in the Band). Il regista ha spiegato che la sua decisione di accettare il progetto su due poliziotti di New York City impegnati a inseguire trafficanti di eroina francesi è dipesa dal fatto che si allenava nella stessa palestra del produttore Phil D’Antoni.

Quel senso del realismo da documentario e quell’atteggiamento da “tutto per tutto” hanno contribuito a trasformare ciò che avrebbe potuto essere un modesto film poliziesco in qualcosa di elettrico e pericoloso; il modo in cui Gene Hackman ha interpretato Doyle, enfatizzando i lati meno simpatici o socialmente accettabili del personaggio anziché minimizzarli, ha stabilito il modello per migliaia di antieroi delle forze dell’ordine a venire. (Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! sarebbe arrivato un paio di mesi dopo.)

Il film è valso a Friedkin un Oscar e l’ha trasformato in una star, il che lo ha poi aiutato con la realizzazione del suo lungometraggio successivo: una versione dell’Esorcista, storia soprannaturale by William Peter Blatty su una bambina posseduta dal diavolo. È incredibile pensare che questi film siano stati girati uno dopo l’altro e che questa doppietta avrebbe poi definito le vette vertiginose e il botteghino nella Hollywood degli anni ’70 soltanto tre anni dopo l’inizio del decennio.

Uscito nelle sale il giorno dopo Natale del 1973, L’esorcista racconta di una ragazzina di 12 anni a Washington D.C. di nome Regan MacNeil (interpretata da Linda Blair) che inizia a comportarsi in modo strano, e di un prete in crisi di fede che aiuta un altro anziano uomo di Chiesa a liberarla da uno spirito malvagio che si è impossessato del suo corpo. Divenne rapidamente uno dei film di maggior incasso nella storia del cinema.

La capacità di Friedkin di trasformare “normali” scene horror-soprannaturali nell’equivalente di attrazioni da brivido ed elettroshock ha causato svenimenti e vomito tra alcuni spettatori. E la cosa ha solo convinto altre persone ad andare a vederlo. Ha introdotto nel lessico l’antiquata nozione cattolica romana degli esorcismi, supportata dall’inquadratura ormai iconica della silhouette di Max von Sydow in piedi davanti alla casa dei MacNeil scelta anche per il poster del film.

L’esorcista si sarebbe rivelato la pietra miliare dell’eredità di Friedkin, ed è stato un film a cui lui è tornato volentieri molte volte nei decenni successivi, parlandone agli anniversari, montando altri 11 minuti di riprese per un “director’s cut” nel 2000, prestandosi per un documentario sulla sua realizzazione e dirigendone un altro su un esorcista nella vita reale. È ancora considerato uno dei film horror più spaventosi, se non il film horror più spaventoso di tutti i tempi.

Come Blatty, che Friedkin aveva conosciuto anni prima quando si era rifiutato di girare un episodio televisivo basato su una delle sue sceneggiature, non l’ha mai considerato un film dell’orrore quanto un film sul “mistero della fede”. Eppure l’enorme impatto che ha avuto su quelli che oggi chiamiamo blockbuster e la percezione pubblica di questa particolare pratica religiosa rimane radicata nel genere. «Ho mostrato la sequenza dell’esorcismo a un paio di psichiatri che hanno detto: “Sembra autentico, ma non ha i sintomi classici”», ha ricordato Friedkin in un’intervista di diversi anni fa. «Ho chiesto: “Quali sono i sintomi classici?”, e ognuno di loro ha detto: “La testa che gira e la levitazione”. E ho replicato: “Dottore, abbiamo inventato tutto noi. Mister Blatty l’ha scritto e ho dovuto trovare un modo per filmarlo”».

Dopo il successo dell’Esorcista, Friedkin avrebbe avuto la strada spianata a Hollywood. Avrebbe potuto trascorre il resto del decennio crogiolandosi in quel successo e trasformandosi praticamente in un idolo dell’industry. Invece il tentativo di fondare una società di produzione guidata da registi insieme a Peter Bogdanovich e Francis Ford Coppola non è andato in porto. Il suo film successivo, Il salario della paura (Sorcerer, 1977), era un remake del thriller francese del 1953 Vite vendute ed è stato un flop. Pochi anni dopo, Cruising, il suo adattamento del romanzo di Gerald Walker su un poliziotto che insegue un serial killer nell’underground della subcultura leather di New York, fu al centro delle polemiche e delle proteste della comunità gay.

Entrambi i film sono ormai diventati dei classici di culto – lo stesso Friedkin ha sempre definito Il salario della paura il suo film preferito –, ma la sua carriera e la sua reputazione hanno subìto un duro colpo. Per ogni film successivo che ricordava il Friedkin vintage dei primi anni ’70 come Vivere e morire a Los Angeles (1985), ne arrivava un altro come Jade (1995), che non ha fatto bene né al regista né al “thriller erotico” come genere.

Friedkin ha comunque continuato a lavorare, e anche i suoi film meno amati sarebbero stati apprezzati come opere di qualcuno disposto sempre a rischiare. Ha vissuto un ottimo ritorno alla ribalta quando ha lavorato a due pièce teatrali scritte da Tracy Letts, Bug – La paranoia è contagiosa (2007) e Killer Joe (2011), trasformandole in adattamenti cinematografici audaci e tesi che meritavano; quest’ultimo è probabilmente l’opera chiave del McConaissance, il rinascimento di Matthew McConaughey. Di Friedkin si è continuato a parlare anche dopo che aveva compiuto ottant’anni, e tra poche settimane avrebbe dovuto presentare in anteprima un nuovo film, The Caine Mutiny Court-Martial, alla Mostra del Cinema di Venezia.

Friedkin passerà alla storia come l’uomo che ha creato la scena-madre di tutti gli inseguimenti in auto e il regista che ha sfidato il diavolo. Eppure era un artigiano che, indipendentemente dal fatto che i suoi film andassero bene o meno, viveva per girare. «Ero stato lontano dalla Serie A per un po’ e molti non sopravvivono a un disastro del genere», ha detto nel 2013 ripensando alla sua carriera. «Ma nessuno si ferma, a meno che non perda interesse in quello che fa. E io non l’ho mai perso».

Da Rolling Stone US