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Se non piangete per ‘Marcel the Shell’, forse allora siete morti

Il film d’animazione in stop-motion candidato agli Oscar è un atto d’amore verso noi stessi. Che insegna a non dare mai per scontata l’importanza degli altri, nelle nostre (apparentemente) piccole vite

Foto: Lucky Red

L’occhio fa un battito di ciglia. È solo uno, sul lato destro del corpo, ma vede tutto del mondo che lo circonda e, grazie al potere dell’animazione in stop-motion, riesce per l’appunto a sbattere la palpebra. La bocca non è molto più che una riga disegnata digitalmente sulla parte inferiore del corpo, ma sa regalare piccole perle di saggezza con una specie di squittio. Non è fatto di molto, in realtà: è una specie di testona con un paio di scarpe da ginnastica. È tutto quello che gli serve per vagare per il mondo. Si chiama Marcel. È una conchiglia. Con un paio di scarpe, appunto. Ed è anche un filosofo alto due centimetri con pensieri profondissimi e così dolci da farti alternativamente alzare gli occhi (plurale) al cielo o spezzarti il cuore.

Quando l’attrice (non solo) comica Jenny Slate (che presta la voce a Marcel nella versione originale, ndt) e il suo allora marito, il regista Dean Fleischer-Camp, hanno iniziato a realizzare le avventure di questa conchiglietta a mo’ di cortometraggi con cui passare il tempo, le loro aspettative erano ancora più basse della statura del loro eroe. L’idea era farlo interagire con oggetti casalinghi, raccontare la sua vita di piccola creatura in un mondo vastissimo (“Indovinate che cosa uso come pouf? Un’uvetta. E il mio deltaplano è un Dorito”), fargli fare una passeggiata con un pelucco preso per il suo animale domestico e riflettere sulla vita, l’universo e tutto il resto di fronte a un’imprecisata persona posta dall’altra parte dello schermo. La coppia si è messa a pubblicare questi minifilm di quattro minuti su YouTube e, milioni di visualizzazioni dopo, Marcel è diventato un fenomento virale. Erano i primi anni ’10 di questo secolo: un tempo totalmente diverso rispetto all’epoca che viviamo oggi.

A Slate e Fleischer-Camp sono serviti sette anni per creare un lungometraggio, Marcel the Shell (nelle sale italiane dal 9 febbraio, ndt), a partire da quell’adorabile conchiglietta, il che ci permette di ripensare a tutto quello che è successo nel mondo dalla prima volta che Marcel ha fatto la sua apparizione sullo schermo. Il nuovo contesto in cui questo film è stato scritto e realizzato ti fa reagire in modo significativo e doloroso a quello che vedi sullo schermo. Marcel resta una piccola creatura di pochi centimetri, continua a usare strumenti come i mixer da cucina, il miele e le palline da tennis in modo del tutto ingegnoso; e, come nei corti, il suo carattere bambinesco è intatto. Ma il senso di estrema malinconia e isolamento, insieme alla solitudine al centro di questo vero e proprio atto d’amore, aggiunge un livello totalmente diverso al nuovo progetto della coppia. Il tono dolceamaro calza benissimo sul loro piccolo eroe.

Marcel faceva parte di un gruppo di conchiglie residenti nella casa di una giovane coppia. Finché una notte, nel mezzo di una discussione, l’uomo che abitava in quella casa non ha deciso di andarsene, mettendo tutte le sue cose in una valigia. Tra queste c’erano anche i calzini in cui avevano preso dimora quasi tutti i parenti di Marcel. Le uniche conchiglie rimaste sono dunque Marcel e sua nonna Connie (doppiata in originale da Isabella Rossellini, ndt). La casa è ora finita in affitto su Airbnb, e attualmente vi risiede un regista (lo stesso Fleischer-Camp) che ha deciso di girare un documentario su Marcel e le sue riflessioni; documentario che inizia a pubblicare su YouTube e – sorpresa! – diventa incredibilmente popolare. Marcel vuole usare questa improvvisa fama per ritrovare i parenti dispersi; ma, sfortunatamente, tutti vogliono solo scattarsi dei selfie davanti a casa sua. Nel frattempo, nonna Connie comincia a dimenticarsi le cose… Marcel è giustamente preoccupato.

Marcel con nonna Connie, doppiata in originale da Isabella Rossellini. Foto: Lucky Red

La metariflessione sulla fama, sulla sua natura effimera e i suoi effetti collaterali inattesi, è pensata per essere un mezzo narrativo che fa progredire la storia, ma non è che una distrazione rispetto a quello che Marcel the Shell vuole essere. Non serve Lesley Stahl – la giornalista di 60 Minutes, programma da cui nonna Connie è letteralmente ossessionata – per farci comprendere che questa è una storia sull’importanza della comunità e dell’amicizia, e su quanto ci serva avere attorno delle altre persone (o conchiglie) per sopravvivere. E non servono nemmeno il formato e lo stile del mockumentary, anche se è chiaro che Flesicher-Camp si diverte a muovere la sua macchina da presa creando un effetto di cinéma vérité.

Tutto quello che serve è la voce di Jenny Slate, che ha l’abilità di intrecciare l’ingenuità di Marcel con la sua ironia evitando che il tono si faccia troppo stucchevole o insopportabile. E, cosa più importante, quello che ti resta è un senso di connessione non solo tra Marcel e sua nonna, ma anche tra tutti gli individui, che siano esseri umani o molluschi, o il mondo che tende ad escluderli. È qui che risiede l’importanza emotiva di questo piccolo, straordinario film. Ci dice che la sicurezza che troviamo negli altri – e l’essere parte di qualcosa di più grande di noi stessi – non è un lusso, ma una necessità. Per il finale, serve avere dei fazzoletti a portata di mano. Realizzato non solo con grandi capacità tecniche ma anche (soprattutto) con il cuore, Marcel the Shell è un’opera che ti mette al tappeto, sia quando è esistenzialmente profonda sia quando resta essenzialmente leggero. Di questi tempi, è davvero un balsamo.

Da Rolling Stone USA

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