Se il cinema finirà, importerà davvero a qualcuno? | Rolling Stone Italia
Before the hunt

Se il cinema finirà, importerà davvero a qualcuno?

Forse sì, vista la quantità di polemiche per l’annunciata acquisizione di Warner Bros. (e HBO) da parte di Netflix. Ma la gente ha comunque smesso di andare in sala. Proviamo a capire perché, anche se forse un perché non c’è

Se il cinema finirà, importerà davvero a qualcuno?

Foto: Amy Peryam/Unsplash

Mentre noi stiamo qui a dire quanto è bello andare al cinema, la gente al cinema ha smesso di andarci da un pezzo, come ripeto da un pezzo. Per ragioni che non sono nemmeno del tutto spiegabili, perché è andata così e basta. Ultimamente incontro un sacco di persone che amano il cinema (o sedicenti tali) e che hanno visto l’ultimo film in sala tre anni fa. (Forse sono le stesse persone che amano viaggiare e che fanno un weekend l’anno nell’unica destinazione a caso per cui il biglietto costa ancora cinquanta euro A/R – se riescono a non farsi cancellare il volo da RyanAir.)

L’altra sera ero in una sala enorme, allestita nel teatro di posa più grande d’Italia, per l’anteprima del nuovo film di un grande autore italiano. La collega accanto a me diceva che al cinema non ci va da mesi, l’ultima volta manco se la ricordava più. «Forse andrò a vedere Sorrentino, perché mi piace molto Sorrentino. E perché quest’idea delle anteprime la mattina a Natale mi diverte». La grazia, che ha aperto l’ultima Mostra di Venezia, uscirà nelle sale il 15 gennaio, ma si potrà vedere dal 25 dicembre, per una settimana, in alcune sale selezionate e solo la mattina (la stessa cosa era successa con Parthenope, ma con le anteprime a mezzanotte). È una forma di eventizzazione, scusate la brutta parola, che è uno dei motivi per cui qualche amante del cinema (o sedicente tale) si convincerà ad alzare il culo dal diano.

Non c’è ragione che tenga, dicevo. La biografia musicale che sembra pensata apposta per il fan del tizio in questione non avrà, fra gli spettatori in sala, quel tizio lì. Il (bel) film con un (bravissimo) attore italiano amato da tutti e che ha fatto promozione ovunque sarà disertato dal pubblico largo, come si dice oggi, per ragioni che, appunto, non sono decifrabili. Aspetteranno forse che arrivi in streaming da qualche parte, a un certo punto.

«Volevo andare a vedere l’ultimo di Guadagnino, ma in sala non c’era più. Poi ho scoperto che era già su Amazon». After the Hunt, che pure era a Venezia, è uscito nelle sale il 16 ottobre; il 20 novembre era già su Prime Video. A me è piaciuto assai, ho detto a varia gente di andare a vederlo. Ma quei pochi che pure avrebbero voluto, perché sarebbero dovuti correre in un qualsivoglia cinema, quando dopo un mese se lo sarebbero trovati a portata di telecomando?

Le finestre tra uscita in sala e arrivo in Tv (o piattaforma) sono un tema che appassiona, anzi ossessiona – ma ormai manco più tanto – solo noi sfigati che nella vita abbiamo deciso di scrivere di cinema, invece di diventare ricchi. Ma oggi anche il pubblico meno scafato l’ha capito: se tutto arriva dopo un niente, che senso ha andare anche nella sala più pirotecnica e meglio frequentata e con le poltrone più comode del mondo?

Perché andare in sala è più bello, diciamo noi. E se per alcuni (per tutti) invece non lo fosse più? È andata così: il cinema è diventato come l’opera lirica (che pure mi dicono in grande crisi: ma davvero non si salva più niente?). Un luogo customizzato, scusate la brutta parola, sui gusti dei propri clienti, con sale che offrono una programmazione mirata, e la lingua originale, e i poggiapiedi, e i vini biologici. E poi, accessoriamente, anche i film.

Il cinema, insomma, non morirà, altrimenti – e veniamo alle cronache correnti – Netflix non si comprerebbe Warner Bros., con tutto lo strascico di Dies Irae intonati da tutte le parti. (Netflix si compra, insieme a Warner, pure HBO, e oggi ci sembra un’eresia; e però HBO è stato il primo indiretto colpevole, l’iniziatore di questa nuova abitudine di vedere il Grande Cinema – o così almeno ci era stato venduto trent’anni fa – comodamente dal divano di casa).

Netflix si compra Warner (per 83 miliardi di dollari: dunque proprio morto il settore forse non lo è) e tutti, dicevo, si agitano. Christopher Nolan, attuale capo del sindacato registi, ha già chiesto un meeting straordinario (ironia della sorte, Nolan, storicamente legato a Warner, era passato a Universal per Oppenheimer, che ha incassato 975 milioni di dollari; è rimasto con Universal per The Odyssey, per cui si prevedono pari sfracelli l’estate prossima – è merito dei suoi studi in fisica dei quanti? c’aveva semplicemente visto lungo?). Jane Fonda posta la sua preoccupazione su Instagram come una volta sarebbe scesa in piazza (non è, in fondo, un po’ come il tempo della sala vs. il tempo dell’algoritmo?). Seth Rogen, che sull’industria cinematografica corrente ci ha fatto una serie (un po’ sopravvalutata: The Studio), commenta che AMC, la principale catena di multisala americana, dovrebbe comprarsi tutto, per metterla in quel posto alla N rossa. Sean Baker, Oscar quest’anno per Anora (costato 6 milioni di dollari, ne fatti 57), dice che i registi indipendenti come lui devono resistere per arginare il flagello di Dio che è lo streaming. Netflix, dal canto suo, fa sapere che i passaggi in sala saranno salvaguardati, poi certo – sintetizzo – bisognerà un po’ riconsiderare le finestre, cioè l’intervallo di cui sopra tra l’uscita nei cinema e l’arrivo sulla piattaforma.

I maggiori successi dell’ultima annata Warner (in ordine di incasso: Un film Minecraft, F1 – Il film, Superman, The Conjuring – Il rito finale, I peccatori, Final Destination Bloodlines e Weapons) hanno portato a un box office totale di tre miliardi e mezzo di dollari. Se quelle finestre saranno ripensate, andranno ancora in così tanti al cinema a vedere film che dopo un mese o poco più saranno in Dolby Surround nel salotto di casa?

L’altro giorno tutti (o almeno quei fighetti degli amici miei) postavano su Instagram, non so perché, il famoso meme del New Yorker col rigatone che telefona al fusillo, «you crazy bastard!». Altra ironia della sorte, proprio su Netflix, e proprio nel pieno del presunto accordo per l’acquisizione di Warner/HBO, è arrivato un documentario sul New Yorker che ho incrociato per caso scrollando la home page: anche se è pienamente in target con le mie scelte, il mio algoritmo mi farà comunque comparire in apertura Stranger Things, che ho smesso di vedere dopo la prima stagione – forse non l’ho manco finita.

Il documentario si intitola The New Yorker at 100 – Storia di un settimanale, l’ha diretto Marshall Curry, ed è il racconto della lavorazione del numero del New Yorker per i suoi cent’anni, appunto. Dentro ci sono le storie di tutti, più o meno: il direttore David Remnick; l’art director che tutte le settimane deve inventarsi una nuova copertina iconica, scusate la brutta parola; il critico di cinema (adorabile Richard Brody, che va a rivedersi Truman Capote con Philip Seymour Hoffman); la selezionatrice delle vignette; il reparto fact-checking; eccetera. Ci sono le riunioni: la più bella di tutte, quella in cui si prendono grandi decisioni come togliere la maiuscola a internet e non scrivere più teenager col trattino in mezzo (da grammar nazi che non apre da anni un giornale italiano per la quantità di refusi, altro che decisioni ortografiche, ho goduto assai).

E c’è, all’inizio, Remnick che dice: «Il New Yorker è un miracolo. È una pubblicazione che una settimana pubblica un articolo di quindicimila parole su un musicista, o uno di novemila parole dal Libano meridionale, con vignette disseminate nel mezzo. In copertina non ci sono mai foto. Non di bikini né di star del cinema. Eppure ha successo. Il fatto che esista e che venda, e insisto sul fatto che continuerà a vendere per i prossimi due-tre secoli, è meraviglioso».

Sentivo queste parole mentre vedevo gli strali contro i cattivi di Netflix che uccidono il cinema, e guardavo il botteghino italiano dove nei giorni feriali si arriva sul podio con manco quindicimila spettatori, e mi veniva da ridere perché i giornali sono morti pure loro, eppure, e mi veniva da piangere perché c’è sempre qualcuno che sta peggio, e ho pensato che forse tra due-tre secoli il cinema non ci sarà più, o forse sì, se qualche pazzo come me continuerà ad applaudire dal loggione.

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