Tornano le file fuori dalle sale di quartiere, gli spazi ospitano rassegne, le watchlist sono alla ribalta, custodite con cura e condivise con un patto di sangue, nelle ballotte urbane (e non) si riprova a buttare lì l’argomento. A quanto pare, il cinema sta tornando a essere cool. Il cinema tutto, quello nuovo ma anche e soprattutto i classiconi.
In un’epoca in cui l’immaginario è stato delegato a TikTok, sgretolato da un ritmo che batte frenetico e incessante, le crepe si stanno rimarginando grazie a un nuovo collante prezioso. E no, non è la nostalgia, o almeno non solo – e di questo si è già scritto tanto –, è un bisogno che non ha mai smesso di scorrere sotterraneo e ora sembra finalmente aver trovato la strada per manifestarsi: la fame di immagini dense e complesse, da decodificare e osservare nel loro dischiudersi, valorizzando la lentezza come scelta stilistica e azione di resistenza radicale, non come difetto da correggere.
Ed ecco che quelle file fuori dai cinema d’essai pullulano di giovani radical che si fanno i selfie davanti alle locandine dei film restaurati e li postano sui loro social per guadagnare punti impegno socio-culturale, per dimostrare il loro sostegno a modalità di vivere e sentire che non metteranno mai in pratica ma che in qualche modo ammirano, che li attrae – forse senza neanche capire bene il perché. Tutto questo, dietro al sicuro schermo di privilegi che li protegge da ciò che gli passa accanto ogni giorno ma riescono a vedere solo a distanza, proiettato su uno schermo. Lynch offre loro il simulacro perfetto di questa dimensione, permettendogli di fare esperienza, attraverso i suoi film e il profondo processo di identificazione innescato magistralmente, di ciò dentro di sé giudicano irrazionale, disturbante, deviato rispetto alla narrazione dominante.
Al cinema a rivedere i classici, infatti, non va solo chi c’era alla prima uscita, per farsi una bella dose di rassicurante comfort zone e dimenticare per un paio d’ore della piega che ha preso la propria vita, ma anche e soprattutto chi non c’era. Una nuova generazione di pubblico ormai stufo delle narrazioni iper-guidate studiate ad hoc per il binge watching, attratto invece dal richiamo dell’interpretazione, dell’oscurità, di significati da ricostruire nel gruppo WhatsApp della propria bolla una volta a casa. E che sia per posing radical o per genuina cinefilia, si tratta di due effetti collaterali di diversa, ma non necessariamente opposta, natura che si trovano a coesistere.
Sì, perché rivedere i classici del cinema, oggi, in sala, è come guardare uno specchio (infedele) che riflette la società per ciò che è – anche dopo quasi 40 anni –, sbattendocela in faccia senza chiedere il permesso. Ed è questo che cerchiamo tutti: abbandonarci al flusso del non capire. Lynch, con la sua inquietudine industriale e la sua grammatica crudele, ci permette di farlo, portando in scena tutto ciò che il cinema attuale mainstream tende a evitare e di cui iniziamo a sentire la mancanza: il sublime; la coesistenza di maestosità e impotenza, paura e attrazione, meraviglia e umiltà. Ovvero tutto quello che anche il radical vorrebbe incarnare, lasciando andare le friulane, spettinandosi i capelli e buttando via l’Iqos. Magari queste cose non le farà, ma in sala a vedere Lynch ci andrà. E lì incontrerà altri esemplari della sua bolla, ma non solo: le corde che i classici come il regista di Missoula sanno toccare sono universali, trasversali – a cambiare è il modo in cui suonano, ma non rimangono sorde.
Potrebbe sembrare un cortocircuito: un regista che rifiuta spiegazioni che intercetta persino un pubblico nutrito a tutorial di 15 secondi e ad avere tutto subito. E invece le nuove generazioni di oggi non sono affatto allergiche alla complessità: più o meno consapevolmente, sono sature di messaggi didascalici e vanno in cerca di opere emotivamente coinvolgenti, mondi altri da abitare, simboli da decifrare (o ignorare). Non è un caso se Mulholland Drive è uno dei film più condivisi, remixati e citati nei contesti queer, artsy e underground, con la sua fluidità, per il modo in cui indaga la fenomenologia del sogno e del desiderio, emblema radicale del contemporaneo.
Lynch è il capofila di questa marcia inversa, con la sua poetica di decostruzione post-tutto – post-trama, post-senso, post-verità – che è l’ideale in una società in cui la realtà è diventata fiction, e viceversa, e ci mancano gli appigli interpretativi per navigarla. Ma attenzione: Lynch non ci dà risposte, ci insegna a stare in questo vuoto, a rifiutare la semplificazione e trovare l’agio nel disagio. Da qui, la pregnanza di Eraserhead, che fa da eco alla nostra angoscia esistenziale e paura del futuro; o l’impatto di Velluto blu, con la sua mappatura onirica del concetto di identità. E ancora, The Elephant Man ci parla – in modo sempre attuale e sottile – di come venga rigettata la a-normalità in un sistema normativo e tokenizzante, mentre Eraserhead, di nuovo, è un body horror che potrebbe essere stato girato dopo la pandemia. E poi Cuore selvaggio, un inno pulp alla libertà nei suoi eccessi.
Sono ormai decenni che, con la scusa che il pubblico “non è pronto”, i contenuti audiovisivi si sono progressivamente omologati e appiattiti, relegando il mistero a “rischio commerciale” da non assumersi, ma non è così: e le code di Zoomer, giovani radical, cinefili da poster di Inland Empire lo dimostrano. Basta guardare le reaction su TikTok dopo aver visto Strade perdute, che oscillano tra l’estatico e il disturbato. Il pubblico rivuole semplicemente questo: uscire dalla sala con la voglia di parlare di ciò che ha visto, anche quello cresciuto a pane e doom scrolling. Il mistero è tornato di moda, solo che adesso si chiama “esperienza immersiva”.