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‘Rifkin’s Festival’ è (detto a voce bassissima) il film testamento di Woody Allen

Perché dentro c’è la sintesi, gioiosa e pacificata, del suo intendere la nostra (inutile) vita. E c’è tutto il cinema che piace a lui, e che piace a noi. Ma la voce è bassissima perché Woody non morirà mai: non scherziamo, su

Foto: Vision Distribution

L’amico romano che come me ha visto l’ultimo Woody prima dell’uscita – le anteprime delle grandi occasioni! I critici sono ancora tutti vivi! Netflix non ha piegato i cinéphile! – l’altro giorno mi scrive: «Spero non sia l’ultimo, ma è il suo testamento». È quello che ho pensato pure io di fronte a Rifkin’s Festival, dal 6 maggio #soloalcinema, hanno fatto pure l’hashtag-progresso. Un film, proprio per questo, che a vederlo ti sazi e ti strazi moltissimo, t’intenerisci e t’immalinconisci, esulti e caragni.

Rifkin’s Festival è il film messo al bando, negli Stati Uniti, prima ancora che esistesse, come tutto ciò che riguarda Allen oggigiorno, ché un gruppetto di cretini ha deciso che è un mostro (la storia è sempre quella, ormai la saprete). L’hanno prodotto gli spagnoli e, un po’, anche gli italiani (Mieli e Gianani di Wildside), il che ci inorgoglisce molto e ci fa ogni santo giorno ringraziare il cielo, o chi per esso, per il fatto d’essere europei.

(Ho recuperato di recente su MUBI il magnifico Malmkrog del magnifico Cristi Puiu, tre ore e rotte di discettazioni, nella Russia a cavallo tra otto e novecento, ispirate dagli scritti teosofici di Solov’ëv. Uno dei personaggi, a un certo punto, dice che c’è un denominatore che lega le genti del mondo al di là dell’appartenenza geografica, ed è l’essere europei, è quell’eredità, quella cultura, quella fratellanza ideale, quel sentire. Ecco, Woody Allen è un uomo europeo, ed è giusto che, in una definitiva chiusura di cerchi, oggi siano gli europei a produrlo. Chiusa parentesi.)

Ecco, dell’Europa Rifkin’s Festival ha i finanziamenti ma soprattutto lo spirito. Al Festival di San Sebastián, quinta teatrale più indovinata e meno “la pro loco ringrazia” di quanto sembri, ci finisce l’ex professore di storia del cinema Mort Rifkin (Wallace Shawn, finalmente protagonista assoluto) perché la moglie Sue (Gina Gershon, altra sottoutilizzatissima: meno male che le star non vogliono più girare con Woody, così lui può pescare tra i bravissimi finiti ingiustamente in seconda fascia) è una press agent (di una volta: si può permettere suite in alberghi a cinque stelle) che lavora per la nuova sensation del cinema d’autore francese, tale Philippe (Louis Garrel).

Louis nel film si chiama Philippe come suo padre, ultimo erede vivente dell’Onda che ha cambiato il cinema. E tanto basta a dire cosa vuole raccontarci Woody. Il festival è quello a cui Rifkin partecipa suo malgrado, ma anche quello che si fa nella testa, sono tutti i film che ha amato e studiato, e i film che vorrebbe fossero la sua vita vera: forse è meglio che non lo siano, oppure chissà. Mentre la pochade romantica procede – Sue e Philippe hanno una tresca, Mort s’incapriccia di una dottoressa del luogo (Elena Anaya) – scorrono i quadri, spesso sogni o incubi, che il docente-pensionato-e-romanziere-mancato confeziona per salvarsi la vita. La vita è breve, e triste, e inutile. Per fortuna c’è il cinema.

I quadri sono rifatti da Woody (insieme a uno scatenatissimo Vittorio Storaro) alla maniera precisa dei film che ha amato. C’è, appunto, un sacco di Nouvelle Vague, le lenzuola di Godard e le biciclette di Truffaut, ma anche un esilarante reboot di Quarto potere, e Bergman con i primissimi piani sottotitolati da pisciarsi addosso, e Fellini, Buñuel, un altro Bergman, i critici a proiezione finita si divertono a citarli tutti.

Woody Allen con Vittorio Storaro sul set a San Sebastián. Foto: Vision Distribution

Rifkin’s Festival è un film struggente e testamentario – detto, lo ripeto, a voce bassissima: Woody mica morirà, non scherziamo – perché sembra chiudere tanti discorsi lasciati volutamente aperti in cinquantacinque anni di cinema, e perché riesce finalmente a gioire del bruttissimo della vita. È un film dove è sempre il cinema a fregarti ma pure a salvarti, dove l’incomprensibilità e la rabbia per il nostro essere mortali paiono improvvisamente pacificate, dove le storie d’amore sono sempre mancate o immaginarie come quelle che vedi sullo schermo (splendida la risoluzione del tutto platonica di una delle sottotrame sentimentali).

Nell’ultimo, ennesimo lockdown milanese, ho riaperto la cartella Rohmer, ho rivisto i preferiti di sempre e visto cose – certi Proverbi, soprattutto – che quand’ero ragazzino erano introvabili (grazie MUBI, ancora). E ho finito per negare l’evidenza della città pandemica e anemica: no, non sto mica andando all’Esselunga, anche la mia vita si muove tra antiquari bretoni e parchetti parigini, tra un’alba campestre e una merenda nelle vigne del Rodano. Se amate il cinema, sapete cosa vuol dire farsi il proprio festival, vivere il proprio eterno film, e allora la storia di Mort vi piacerà moltissimo, e saprete che non sarà l’ultima.

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