Quello che il Dick Cheney di 'Vice' non dice sul conservatorismo americano | Rolling Stone Italia
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Quello che il Dick Cheney di ‘Vice’ non dice sul conservatorismo americano

Il vicepresidente dell'amministrazione Bush interpretato da Christian Bale non è un personaggio reale, ma la maschera che incarna una malattia che infetta la destra americana sin dagli anni '60: l'opportunismo

Quello che il Dick Cheney di ‘Vice’ non dice sul conservatorismo americano

Questo non è un biopic. Nonostante le apparenze, il film Vice, diretto da Adam McKay, con Christian Bale come protagonista nella parte di Dick Cheney, non è un racconto storico, pur avendo personaggi rigorosamente reali. Si tratta di qualcos’altro. Una satira, o meglio, una parabola. La parabola dell’ascesa politica di un ex operaio elettrico del Wyoming che finisce per occupare le cariche di capo dello staff del presidente Gerald Ford, deputato, segretario alla difesa e poi vicepresidente di un candidato molto più mediatico e istintivo. Una parabola di una figura che nel suo miglioramento nella scala sociale perde via via i tratti umani per trasformarsi in un freddo esecutore di un Potere che via via diventa quello personale, senza fermarsi di fronte a nulla, cavalcando la tigre del conservatorismo americano che resisteva al cambiamento generato dalla sconfitta americana in Vietnam.

Christian Bale in ‘VICE’

Ma per citare un altro film dall’impianto narrativo vagamente simile, la situazione era un po’ più complessa. Jimmy Carter, che compare brevemente nel film, non era un ambientalista, nonostante l’installazione di alcuni pannelli solari, ma un liberalizzatore di settori importanti dell’economia americana che piaceva molto anche ad alcuni leader religiosi conservatori. Seconda cosa, il conservatorismo americano non è una falange unita dietro un unico leader, sul modello della destra radicale europea attuale. Non lo era tantomeno all’epoca. Ronald Reagan nel 1980 ricevette pochi endorsement da parte degli esponenti repubblicani al Congresso, che gli preferirono il più moderato George H. W. Bush. Inoltre erano ancora presenti esponenti come Johh B. Anderson, centristi moderati che rifiutarono la spinta verso il neoliberismo del candidato presidente. Terzo elemento da non dimenticare, una volta per tutte. George W. Bush non era un candidato debole e manipolabile come quello interpretato da Sam Rockwell. Era un leader esperto che veniva da un tirocinio di governo come governatore del Texas e con una squadra di tutto rispetto, tra cui il suo consigliere Karl Rove. Cheney è stato senza dubbio un vicepresidente andato molto al di là delle sue prerogative, come affermato esplicitamente in una sua biografia, tanto da guardagnarsi il titolo di “vicepresidente imperiale”. Ma il suo impatto sulla democrazia americana è stato solo temporaneo e comunque in linea con la crescita del potere esecutivo della presidenza avvenuto sin dai tempi della guerra civile, quando il presidente Abraham Lincoln abolì con un tratto di penna la schiavitù nel territorio della Confederazione utilizzando i suoi poteri di guerra. Anche Roosevelt durante il New Deal allargò le prerogative del presidente creando il proprio staff personale allargato nelle forme attuali e gestendo programmi segreti quali il progetto Manhattan, dedicato allo sviluppo della bomba atomica.

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Tenuti presenti questi elementi, torniamo al termine “parabola”. Si tratta, a suo modo, di una parabola evangelica, con il “ricco stolto” Cheney che rischia più di una volta di fermare la sua ascesa per i suoi problemi cardiaci. Qui il messaggio però è rovesciato, perché grazie ai suoi agganci sulla Terra (si allude al fatto che il suo donatore per il trapianto cardiaco del 2012 sia morto in circostanze misteriose, evento immaginario) il protagonista riesce sempre a rimanere in piedi. Ma se scaviamo oltre i dettagli storici e i messaggi del film, che accomunano in modo inappropriato i Koch brothers, forti critici di Cheney e di Bush, ai Coors, sostenitori invece della presidenza forte e dell'”esecutivo unitario”, l’opera si può considerare pienamente riuscita. Cheney va oltre il suo personaggio. Non è il personaggio reale. Ma incarna una malattia della destra americana che la pervade sin dagli anni ’60, quando Nixon decise di sfruttare le paure della classe media bianca spaventata dall’ascesa sociale dei neri negli stati del Sud e non solo.

La malattia, ben peggio di un cuore in affanno, è l’opportunismo. Opportunismo che via via divora le teorie sulle basse tasse, i bilanci in pareggio, la libertà d’impresa e il forte ruolo dell’America nel mondo, elementi che costituiscono le colonne della pensiero conservatore americano, con radici nobili negli scritti del pensatore britannico Edmund Burke e in quelli del terzo presidente Thomas Jefferson. Li divora perché sempre più fa affidamento invece sui “deplorevoli” citati in un’infelice uscita elettorale da Hillary Clinton nel 2016: leader religiosi evangelici estremisti, suprematisti bianchi, elettori retrogradi spaventati dal cambiamento dei costumi, da loro definito “decadimento morale“. Questa malattia ha fatto sì che anche chi ha sfruttato questi pezzi di Paese sia diventato sempre più simile a loro. Per quello il ragazzone un po’ svogliato del Wyoming diventato eminenza grigia rappresenta perfettamente questa traiettoria. Ed è questo l’elemento forte del film, che lo rende magnifico e degno di essere goduto appieno. Tenendo presente che è un’allegoria, un racconto surreale e simbolista, e non un tradizionale film biografico. Per questo, è molto più aderente alla realtà W di Oliver Stone.

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