C’è un video, pubblicato sul suo Instagram nel 2023, che oggi pare il più bel testamento di Diane Keaton. È nel suo giardino, look total black e solito, stilosissimo cappello d’ordinanza, che balla sulle note di Flowers di Miley Cyrus, da sola, incurante e scatenata come una meravigliosa pazza. “I can buy myself flowers / Write my name in the sand / Talk to myself for hours…”, canta Miley. E Diane, 77 anni allora, ondeggia, sorride, batte le mani, con quella leggerezza buffa e autentica che l’ha sempre salvata. “I can love me better than you can”. È un piccolo manifesto femminile e femminista, ma soprattutto umano, una dichiarazione d’indipendenza travestita da coreografia domenicale. Non è l’ultimo ruolo perfetto: è lo stesso che interpreta da una vita. Quello di una donna che non ha mai avuto bisogno di essere scelta, perché si era già scelta da sola.
Non solo un’attrice e una guru dello stile, ma una filosofia di vita: fatta di cappelli, risate, scelte eccentriche e un’allegria quasi militante. Keaton era un’eroina fuori formato, capace di tenere insieme romanticismo e solitudine, comicità e malinconia. Un’icona della dissonanza, una che non si pettinava per piacere a nessuno, e proprio per questo piaceva a tutti.
Su Instagram era uno show irresistibile, un palcoscenico domestico fatto di umorismo, autoironia e, di nuovo, cappelli larger than life. Oltre alle sue coreografie improvvisate, pubblicava video in cui faceva smorfie, mostrava fieramente i suoi outfit unici, le scarpe più bizzarre (comprese un paio “da clown”) e le sue case. C’erano cani (il golden retriever!), giardini con l’erba alta (perché chissenefrega), tramonti e un gusto per la stramberia che la rendeva più punk di qualunque influencer ventenne. Non cercava di piacere: postava persino carrellate con le sue peggiori scelte di moda o clip in cui camminava letteralmente dentro un enorme cappello di paglia. A 79 anni era lì, con 2.5 milioni (!) di follower, a ridere di sé stessa e a testimoniare che l’età, come lo stile, è solo una questione di atteggiamento.
E ballava, Diane, ballava spesso: ricordo anche un altro video (ma scorrendo la sua pagina chissà quanti ce ne sono) sulle note di Another Man’s Jeans di Ashe, mentre saltella davanti alla porta di casa con la grazia spassosa di chi non deve dimostrare più niente a nessuno. Poi c’è quella scena delicata e commovente nel video di Ghost di Justin Bieber, dove interpreta la nonna che ha perso il marito: due generazioni, un abito di Gucci in dono, qualche shot e un paio di giravolte in un bar à la page. Il nipote (per fiction) la stringe e lei ride come una ragazzina: un lampo di malinconia travestito da leggerezza, un piccolo film sulla perdita, sull’amore che continua a danzare anche quando non c’è più nessuno con cui farlo. O quando l’età sarebbe passata da un pezzo, ma poi chi lo dice, vedi la comedy Poms (mai arrivata da noi), dove interpreta una signora che fonda una squadra di cheerleader in una casa di riposo.
Diane Keaton ha ballato, in fondo, per tutta la vita. Con i suoi personaggi, con i ruoli che l’hanno attraversata e con la moda che ha rivoluzionato senza neppure volerlo. Quando Woody Allen la incontra per Provaci ancora, Sam (1972) capisce subito che quella ragazza alta e impacciata non è solo la partner ideale sul set: è una stella anomala. È la sua Linda Christie che prova a insegnare ad Allan come muoversi e approcciare una ragazza sulla pista da ballo, un momento tipicamente alleniano, impacciato, tenero, surreale, che anticipa la loro chimica in Io e Annie (1977).
Proprio in quel classico, pochi anni dopo, la stessa energia diventa linguaggio. Il “look Annie Hall”, e cioè blazer oversize, pantaloni maschili, camicie bianche, gilet e ovviamente cappelli, fu un terremoto glamour. Era il 1977, e Diane Keaton certificava che una donna poteva vestirsi come un uomo e restare infinitamente femminile, che l’androgino poteva essere romantico, che si poteva non compiacere nessuno e risultare irresistibili. E non c’era alcuna costruzione, perché quel guardaroba era il suo: lei era Annie Hall.
E come accadeva per la moda, il suo rapporto con la danza è sempre stato un gesto di libertà. Nessuna coreografia, ma quella tensione irrinunciabile a essere sé stessi, quella scossa che arriva quando ti togli le scarpe e il corpo si muove prima ancora che tu te ne accorga. È joie de vivre purissima, il suo modo di stare al mondo. Di quella stessa spinta all’autodeterminazione vive Il club delle prime mogli (1996), dove, insieme a Goldie Hawn e Bette Midler, trasforma il dolore in spettacolo e la vendetta in numero da Broadway. Tre ex mogli tradite che decidono di riprendersi la scena, e poi la vita, calando il sipario su un’esibizione travolgente di You Don’t Own Me di Lesley Gore. “Don’t tell me what to do / Don’t tell me what to say” cantano (e ballano), una strofa dopo l’altra. È il film in cui il femminismo di Diane diventa pop, gesto di solidarietà tra sorelle nell’anima, atto di liberazione culturale.
Quella scena, disse poi, era la sua preferita. «È stato divertentissimo», raccontò in un’intervista con Ariana Grande. Quando la cantante le chiese come si sentisse a essere “così iconica”, Diane rispose con la sua solita, disarmante modestia: «Non so esattamente cosa significhi. Io mi alzo la mattina e penso solo che devo dare da mangiare al cane». Forse è questo il segreto, se ce n’è uno: Diane Keaton non ha mai cercato di essere un’icona, e proprio per questo lo è diventata. Non ha mai ostentato la sua bellezza, ma ha mostrato una libertà più contagiosa di qualunque sex appeal. Ha costruito una carriera senza piegarsi ai modelli, senza mai rinnegare la sua eccentricità.
Saltellava, rideva, collezionava cappelli, fotografava case, amava i cani, pubblicava libri, postava video imbarazzanti. Non si è mai sposata, ha adottato due figli, ha amato molto (Woody Allen, Al Pacino, Warren Beatty) e ha sempre dichiarato che la felicità non dipendeva da nessun altro. Era l’incarnazione di quel verso di Flowers: “I can love me better than you can”. Diane Keaton non ballava per gli altri, ma per sé. Ballava come si scrive un diario: per tenere il tempo, per restare viva. Non apparteneva a nessuno, se non a sé stessa. E ballava come se nessuno la stesse guardando.
