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Quando ci siamo ammalati di noi stessi?

‘Sick of Myself’, ora al cinema, racconta il vittimismo e la mitomania che contraddistinguono il nostro tempo. E ci dice che siamo già pazzi, ma possiamo diventarlo ancora di più

Foto: Adso Films

Tolto Fincher, il miglior film sui social network è Ingrid Goes West, prodotto sei anni fa che in anni social è come dire trecento, da noi non l’ha visto nessuno (forse anche perché è uscito, da qualche parte, come Ingrid va a ovest: vabbè). È la storia di una giovane donna (divina Aubrey Plaza) ossessionata da un’influencer ramo moda-lifestyle (Elizabeth Olsen, che il fashion ce l’ha in famiglia) che, in stile Single White Female, inizia a stalkerizzarla fino a impazzire, o forse era già pazza prima, e probabilmente era pazza pure l’influencer.

Siamo pazzi tutti, impazziamo progressivamente stando dentro i telefoni e progressivamente cambia anche il nostro modo d’impazzire. Sick of Myself – che racconta i social in senso lato, come parte ormai così integrante della vita che ormai non contano nemmeno più in quanto tali, non esiste più distinzione tra reale e digitale – ci dice esattamente questo. Era a Cannes l’anno scorso, da qualche giorno è uscito nelle sale (pochissime), e racconta la svolta cruciale avvenuta in questi sei anni: prima eravamo ammalati di influencer, ora siamo ammalati di noi stessi, appunto. (Certo: eravamo già ammalati di noi stessi prima, e sicuramente gli influencer erano già ammalati di loro stessi; ma almeno loro sono stati più furbi e hanno capitalizzato il disturbo.)

Sick of Myself l’ha scritto e diretto il norvegese Kristoffer Borgli, oggi “americanizzato” con Dream Scenario starring Nicolas Cage, è uno di quegli europei che sanno scrivere e dirigere e che dunque gli americani ci rubano subito, ma questa sua storia resta appunto molto europea, anzi precisamente norvegese, perché al centro ci sono “le persone peggiori del mondo”, vale a dire noi tutti.

Signe e Thomas sono una coppia che si sfida in campo visibilità, in un gioco al rialzo e al massacro continuo. Lui è un wannabe artista che ruba pezzi di design e li riassembla in opere di dubbio esito (assomiglia vagamente a Paolo Stella, ma immagino sia un caso). Lei una barista che patisce moltissimo quel poco d’attenzione rivolta al fidanzato, e quindi ha la grande trovata: mi vendo come vittima di qualcosa, e ci costruisco sopra una credibilità sociale (poi, forse, anche una carriera).

All’inizio è facile: a una cena fra galleristi e intellò in cui nessuno la caga, finge un’allergia e per un attimo ha lo spotlight su di sé. Poi capisce che non basta, e allora inizia a prendere farmaci che, lentamente, la sfigurano. Non sto a dirvi gli sviluppi, ma ovviamente sarà un successo – con spassosissima inclusione di una di quelle agenzie di moda che oggi devono per forza dirsi inclusive.

Amo i film – sono pochi – che riescono a prendere lo spirito del tempo anche con una dichiarata furbizia ma senza appiccicarlo, semplicemente, alle storie che vogliono raccontare. Troppi film degli ultimi quindici anni, che siano thriller o commedie romantiche, aggiungono i social come un elemento del tutto accessorio, giusto per non farsi dare dei boomer. Il risultato sono messaggi WhatsApp a tutto schermo al posto delle mail di Meg Ryan e Tom Hanks o assassini stanati su Facebook invece che con le telecamere a circuito chiuso: ma è tutto uguale (vecchio) come prima. Sick of Myself invece non esisterebbe se non esistessimo noi, nel modo preciso e pazzo che ci definisce oggi. (Un altro film, assai diverso e simpaticamente caotico, che usa bene la dimensione social è Rotting in the Sun di Sebastián Silva, una finta autofiction folle e queer che ha per protagonista il vero creator Jordan Firstman. È un cortocircuito molto divertente, è su MUBI.)

Dietro Sick of Myself c’è la lezione di Joachim Trier, dicevo, e di Östlund, e di tutto quel cinema scandinavo che deve ancora qualcosa al Dogma (e pure ai suoi abusi) e che continua a indagare l’essere umano moderno, la sua realtà, il costume sociologico e culturale (come, parentesi, il nostro cinema non riesce più a fare: chi potrebbe scrivere, o ha scritto negli ultimi anni, un film in fondo semplice come questo?). Non so se Sick of Myself lo vedranno tra cinquant’anni come documento di quello che siamo stati negli anni ’20 dei 2000, di sicuro fa bene vederlo oggi per capire i pazzi che siamo mentre impazziamo sempre un po’ di più, piangendo su Instagram per la guerra in Israele di cui non sappiamo niente dopo aver condiviso le foto del finto yearbook da liceo americano: mi devo riscattare a quarant’anni coi vostri like, da adolescente mi bullizzavano, povero me.

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