«Un dazio del 100%? Non sono un esperto in economia, ma mi pare significhi che Trump si prenda tutti i soldi. E allora noi cosa ci guadagniamo? Si può trattenere un film alla dogana? Non funziona così». Non era mai stato tanto manifestamente politico Wes Anderson, almeno non in senso stretto, perché la sua costante e intransigente difesa dell’arte sopra ogni cosa è forse la forma più alta di politica che si possa immaginare. Ma il mondo è in fiamme e tocca essere più diretti, sbattere elegantemente in faccia a chi dice che i suoi film sono soltanto “forma” che la “forma”, spesso, è il messaggio. Di più: è resistenza. E tutto questo nel tempio del cinema d’auteur, dopo essere arrivato sul red carpet insieme al suo (super) cast senza le auto d’ordinanza, ma con un bus a noleggio e Bill Murray (e cioè Dio, letteralmente) in prima fila.
Se i film di Wes sono sempre stati – per lui e per noi – un rifugio consolatorio contro questo brutto mondo, La trama fenicia (titolo italiano che non rende tutta la complessità dietro l’originale, The Phoenician Scheme, ma tant’è: da noi arriva al cinema il prossimo 28 maggio) è il primo in cui la denuncia politica è deliberata, ma pur sempre à la Anderson: senza proclami e lasciando che il meccanismo si racconti da solo. Si muove sulle corde del dramma e della satira, ma con una dose di realismo mai vista prima in Wes. Non più il gioco del capriccio o del pastiche, ma una cartografia della crisi, un inventario dei resti e delle macerie di un’epoca. Un raffinato manuale di sopravvivenza per quest’era di avidità sfrenate, corruzioni e disuguaglianze, in cui il decadimento morale va a braccetto con la ricchezza, un meraviglioso bigino sulle derive del capitalismo terminale che si autoalimenta e si autodistrugge, dove la politica è una farsa, i governi sono comparse e le guerre commerciali si combattono con regolamenti incomprensibili, dazi (again) insensati e linguaggi da teatro dell’assurdo. La tragicommedia, pubblica e privata, di un magnate ridicolo (!).
Zsa-zsa Korda (Benicio del Toro, gigantesco con il suo understatement da premio Oscar mancato per troppa grazia) è uno degli uomini più ricchi d’Europa, un oligarca post-bellico che sembra uscito da un romanzo di Philip Roth e che ha costruito il suo impero su un castello di carte sempre più scricchiolante a ogni scena, come se Orson Welles avesse girato Succession in Super 8: «Questa storia è nata anni fa, da un’immagine: Benicio come personaggio centrale. Non sapevo cosa sarebbe accaduto, ma sapevo che lui c’era, e che non si poteva uccidere», ha detto il regista. Sopravvissuto all’ennesimo attentato alla sua vita, Korda decide di lasciare il suo impero alla figlia Liesl (splendida la nepo baby Mia Threapleton, figlia di Kate Winslet), una suora dall’espressione impassibile che vive in un convento di montagna a metà tra Dreyer e Tati e fuma una pipa tempestata di pietre preziose. È l’anomalia nel disegno, l’eccezione spirituale in un mondo di contratti e clausole. Quando Zsa-zsa la convoca dopo averla ignorata per anni, lei arriva in abito monacale, con una piccola valigia di vimini e un rosario e inizia a smontare il padre (e la sceneggiatura) con frasi secche tipo: “Dio non ha bisogno di eredità”. Sì, Anderson ha ancora un debole per i personaggi che si rifiutano di recitare la parte assegnata.

Benicio del Toro alias Zsa-zsa Korda. Foto: TPS Productions/Focus Features/Universal Pictures
C’è un goduriosissimo piano sequenza dall’alto con Benicio dentro una vasca da bagno girato a 120 fotogrammi al secondo che è deliberately Wes Anderson, una partita di basket instant cult featuring Riz Ahmed, Tom Hanks e Bryan Cranston, il debutto chez Wes Anderson di Michael Cera, che pare lui stesso un personaggio creato da Wes Anderson, il villain meravigliosamente cartoonesco di Benedict Cumberbatch, Scarlett Johansson forte, tosta, indipendente (con treccia da Oktoberfest), i pigiami clamorosi di Zsa-zsa by Milena Canonero, i camei di Willem Dafoe, Charlotte Gainsbourg, Dio – pardon – Bill Murray. E, al centro, un’operazione su scala globale conservata nei contenitori più analogici che vi possiate immaginare: «Il padre di mia moglie, un ingegnere libanese», racconta Wes, «un giorno le mostrò delle scatole di scarpe piene di progetti e le disse: “Se un giorno non riuscirò più a gestirli, devi sapere cosa fare”. Era un gesto folle e tenero insieme. Il film è dedicato a lui».

Micheal Cera (Bjorn) e Mia Threapleton (Liesl). Foto: TPS Productions/Focus Features/Universal Pictures
Da quelle scatole parte la “trama fenicia”, una strategia economica-lampo che prova a riscrivere le regole del potere, ma che scatena anche un braccio di ferro familiare, politico e spirituale che attraversa il film come un pugno nello stomaco e che diventa un’elegia su padri e figlie, sulla colpa, sul testamento morale e materiale che lasciamo dietro di noi: «Roman Coppola ed io volevamo scrivere una storia molto oscura. Un personaggio che prende decisioni su larga scala, incurante delle conseguenze. Ma poi il film ci ha portato altrove. Ha iniziato a parlarci di famiglia, di morte, di fragilità». E di paternità disfunzionale, di infanzie senza favole (vedi gli orfani adottati da Korda, che lanciano per casa frecce infuocate con la balestra – lol), come già avevano fatto Rushmore, I Tenenbaum, Le avventure acquatiche di Steve Zissou. The Phoenician Scheme è una sinfonia su due note. Zsa-zsa e Liesl. Padre e figlia. Il magnate e la monaca. Il potere e la grazia. Il mondo e Wes Anderson.

Benicio del Toro (Zsa-zsa) e Mia Threapleton (Liesl). Foto: TPS Productions/Focus Features/Universal Pictures
L’unicità della Trama fenicia infatti sta nel modo in cui Anderson mette a nudo il disincanto senza perdere quel tocco estetico che rende ogni suo film un’esperienza. L’ironia è un po’ più sottile, un po’ più amara, quasi una coltre sottile che protegge dal dolore. Tutto sembra meno sgargiante, più asciutto, persino i colori dominanti: l’ocra, il grigio e il blu slavato, che trasformano il consueto caleidoscopio andersoniano in un paesaggio di decadenza e polvere. Le simmetrie diventano gabbie di un mondo che si sta sgretolando. Non è più un riparo nostalgico, ma uno strumento per raccontare la crisi e la fine di un’epoca. A un certo punto infatti la storia smette di essere una parabola sul capitalismo e comincia a somigliare a un cantico sulla disillusione, un film su chi quel disastro è destinato a ereditarlo. E, magari pure senza saperlo, prova a immaginare un mondo nuovo, senza mai rinunciare a cercare quella breccia, quel gesto impercettibile che può far saltare il sistema.