Rolling Stone Italia

Pierpaolo Capovilla: vita mia, a noi due!

La sua “nuova vita” è il cinema. Francesco Sossai lo ha voluto nel cult dell’anno: ‘Le città di pianura’. E lui racconta in esclusiva per noi com’è stata quell’Esperienza (con la maiuscola, sì)

Foto: Lucky Red

Ero depresso. Voglia di farla finita. Succede a tutti ormai. E per forza. Con quel che accade nel mondo… Tutti crepano, uno di più, uno di meno, che differenza fa?

L’ansia la combatto ogni mattina, dacché son vivo, ma a volte l’ansia si trasforma in qualcosa di più importante, e quasi sempre non è il lavoro che fai ad aiutarti a liberartene, anzi… Così spesso, quasi sempre, è il lavoro stesso l’origine del tuo malessere. Basaglia docet. Ma questa volta non è andata così. Tutto il contrario.

Viene a trovarmi, a casa mia, Francesco Sossai, il regista. Francesco ha una grande stima per me, me ne accorgo subito, e io mi sento lusingato. Però ogni volta mi chiedo: perché? Ma non mi hai visto in faccia?

Non una brava persona – non sono affidabile –, non un intellettuale – mi manca la disciplina –, non un grande artista – detesto questa parola, e sopratutto detesto quelli che dicono: io sono un artista –, insomma, Francesco, non sono quel che pensi. Credo d’avergli detto qualcosa del genere.

Impepata di cozze al pomodoro piccante e spaghetti alle vongole veraci. Due, tre, quattro bottiglie di bianco del Collio. Una gran bella chiacchierata “cinematografica” a tre, c’era anche Elisa, la mia compagna. On e Off, i nostri gatti, si aggirano intorno, incuriositi.

Francesco è un’ottima forchetta, e un ottimo bevitore, e mi fa piacere. Cassavetes, Tarkovskij, Peckinpah, Fellini, Pasolini, Monicelli… Ma che bella discussione, fra un bicchiere e l’altro, e il peperoncino delle cozze, che ti tormenta il palato. Francesco mi porge una sceneggiatura, Le città di pianura.

Francesco, io non sono un attore, non ho mai fatto questo mestiere. E certo, sì, qualcosina m’è capitato di farla, come quella divertente comparsata nei Primi della lista, film d’esordio di Roan Johnson, che ricordo ancora con grande piacere. Era la prima volta che davo un’occhiata al cinema dall’interno, per così dire, e mi divertii non poco. Gliela raccontai a Francesco. Furono quasi tre giorni di riprese per un unico piano sequenza, cinque minuti in tutto, che quando alla fine riuscì fece scoppiare di gioia Roan e la troupe, tutta intera, ed io pensai: ma che figata è il cinema? E poi il Santamaria, che attore!, gli raccontai… quando entrava in scena, tutto diventava vero.

Francesco mi racconta il personaggio che dovrei interpretare, un cinquantenne sfigato, alcolista e sovrappeso, un balordo ma, in fondo, un buon diavolo, inoffensivo, gentile persino, un povero fallito che se ne infischia del proprio stesso destino, tanto… ormai… La proposta incomincia a piacermi, e non poco.

Adesso ho capito perché hai pensato a me! Lo sai, vero, che in fin dei conti sono molto simile al personaggio del film. La mia cattiva fama, pensai, mi segue, come un’ombra, ovunque vada.

Perché si, inutile negarlo, io con l’alcol ho un rapporto di lunga durata, che intrattengo da quasi tutta la vita, sto persino scrivendo un romanzo sull’argomento, una storia pedagogica su come l’alcol diventi una malattia, un’inutile necessità, una condanna. L’alcol… che sia stramaledetto. Ci salutiamo, nel tardo pomeriggio, e io gli prometto che avrei letto attentamente la sceneggiatura, e gli avrei risposto a breve.

Qualche mese dopo, in ottobre inoltrato, sarebbero incominciate le riprese. Prima però avrei dovuto esercitarmi un po’ con Sergio Romano, in particolare. Un ciclo di incontri preparatori “à la Stanislavskij”… be’, non proprio, diciamo piuttosto “incontri psico-dinamici”.

Credo che Francesco volesse innanzitutto, e propedeuticamente, che io e Sergio diventassimo due buoni amici, che ci capissimo al volo, che imparassimo a guardarci dritto negli occhi, che confidassimo l’uno nell’altro. Ci riuscimmo senza difficoltà, fu facile, e anche divertente. Ci furono persino momenti toccanti. Conserverò per tutta la vita un ricordo fenomenale, di Sergio. Un uomo infinitamente più elegante, più colto, più sensibile di me, che mi faceva riflettere sulla stessa vita, sul senso delle cose, anche senza dire niente… era sufficiente la sua presenza.

Poi arrivò anche Filippo Scotti, giovanissimo, bello come il sole!, preparato, professionale, e umanamente disponibilissimo. Che bel giovane, pensai, e che curioso!, intellettualmente volitivo, voglioso di sapere e sperimentare, uno di quei ragazzi che a un boomer come me fanno pensare che non tutto è perduto, in questo miserabile Paese.

Pierpaolo Capovilla con Filippo Scotti e Sergio Romano in una scena del film. Foto: Lucky Red

“Silenzio, per cortesia! Motore? Acceso. È buona! Ciak. Azione!”. Le riprese incominciano ed io sono costantemente in fibrillazione, ansioso di dare il meglio di me. Ecco, questa cosa ti fa bene, rifletto con me stesso, così non pensi alle tue assurdità quotidiane, ai tuoi cattivi ricordi, agli errori e agli orrori commessi, a quanta sofferenza hai seminato intorno a te. Mi sento costantemente in colpa, perché lo sono. Lo siamo tutti, per forza, ma quando ti guardi allo specchio, quando pensi alla tua vita, è della tua storia che pensi, ed è con te stesso che devi fare i conti, non con gli altri.

La vita è una disavventura, almeno la mia, questo è poco ma sicuro. E poi… e poi Gaza. Ce l’hai sempre in mente, ventiquattrore su ventiquattro, non puoi farci niente, e ti addormenti che vorresti piangere, con un sentimento d’impotenza, insufficienza, inutilità, non servi a nulla e a nessuno Pierpaolo. È, questo, un sentimento che provo ancora, anche in questo stesso momento in cui sto scrivendo. Ma ditemi voi, lettrici e lettori di questo racconto… qualcuno di voi li avrà pur compiuti cinquant’anni! Ritrovarsi cinquantenni, sinistrorsi o persino comunisti, o anarchici kropotkiniani, per assistere a questo abisso morale, a questo fallimento dell’umanità… Fanculo a tutti. Lottare non è servito a niente, tanto, alla fine, le ragioni del Capitale prevalgono sempre sul diritto della gente a vivere in pace. Pace? Quale pace…

Per esorcizzare questi pensieri, sto scrivendo canzoni per la mia banda, I Cattivi Maestri, tutte all’insegna della fratellanza, da buon catto-comunista, un po’ pasoliniano, un po’ majakovskista. Ma che dolore, che frustrazione, che rammarico… Perdonate, è più forte di me.

Torniamo al film, ch’è meglio.

Che esperienza. Che esperienza! Ma che Esperienza!

Ci sono esperienze, nella vita, che lasciano il segno, e non te le scordi più. Ce ne sono di brutte (sono quelle che più sanno fermarsi, e alloggiano nella memoria, fateci caso, come un intruso, in casa, che non paga l’affitto e che piagnucola, e non se ne vuole andare), e ce ne sono di belle, di quelle che respiri un po’ d’aria fresca, e ti senti ringiovanire.

Le città di pianura è stata un’esperienza straordinaria.

Cercherò di spiegarmi. Ho cinquantasette anni, e ho lavorato tutta la vita, lavori diversi, dal più umile al più prestigioso, concedetemi l’espressione, e ho sempre dovuto combattere contro la “competizione”. Nei ristoranti, negli alberghi, negli studi grafici, nel jet-set della musica rock, sempre tutti contro tutti. È una battaglia persa in partenza, ho sempre pensato, una lotta impari, ma tu, Pierpaolo, cerca sempre di essere ciò che pensi, le tue convinzioni politiche cerca sempre di metterle in pratica, anche quando tutto sembra remarti contro. Non lasciarti intrappolare nella falsa coscienza della società, sii te stesso, costi quel che costi.

Non ci sono mai riuscito, se non in rare circostanze, perché non c’è niente da fare, ragazzi, ci hanno educato così, a competere. Che cos’è il “merito”, se non quest’idea stronza dell’individualismo fine a se stesso. L’ascensore sociale lo prendo io, che sono il migliore, che cazzo mi frega degli altri.

Poi, piano piano, ti accorgi che anche coloro che l’ascensore l’hanno preso, e sono arrivati in alto, sono gli esseri più infelici di questa terra. Attico a Milano, milioni in banca, depressione, tendenze suicidarie. Ma che vita è?

Ecco, io non credevo che potesse ancora esistere un ambito professionale dove la competizione si fa da parte, e la cooperazione prende il sopravvento. Mi hanno detto che non è sempre così, anzi. Eppure…

Ho passato più di un mese con professionisti del cinema innamorati del loro lavoro, tutti e tutte puntuali, entusiasti, convinti della bontà e della giustezza di ciò che stavano facendo, e nessuno, dico nessuno, a pestare i piedi a nessuno. Si è instaurato un clima magnifico di cooperazione, che significa tante cose. Perché significa… portare pazienza gli uni con gli altri, significa parlarsi e ascoltarsi, significa reciprocità, nel segno dell’amorevolezza, della comprensione, dell’amicizia, insomma! Niente di meno scontato. E quando ti ricapita una cosa del genere!

C’aveva ragione Karl Marx, il più grande furto che ti fa il Capitale è che ti impedisce di cooperare, spingendoti verso il “tutti contro tutti”, verso l’infelicità, la mancanza di senso, il vuoto morale, politico, culturale. Competere, competere, competere, e che siamo alle olimpiadi? Per come la vedo io, lo sport, cari miei, fa male alla salute.

E invece… si può fare! Si può fare eccome. Basta volerlo.

Questo mese e mezzo passato ad inseguire instancabilmente un obiettivo che si desidera, si brama, si vuole raggiungere, tutti insieme, è stato il mese e mezzo più avvincente della mia vita. Mi sono innamorato di tutti e tutte! Di un amore amicale, fatto di stima e riconoscenza, un amore “politico”, ecco…

Vi ho amato tutte e tutti, ragazzi. Dalla regia di Francesco, naturalmente, un giovane uomo neanche quarantenne di un’intelligenza limpida come l’aria fresca; Ciro!, il tuo “silenzio, per cortesia!”, la tua arguzia, un’arguzia che solo un napoletano…; Gabriella, Paola (Paolina! quanto sei gentile, la tua è una gentilezza, come dire, inevitabile, innata, posturale… ti sposerei!); Sebastiano, Luca… alla fotografia, che ho scoperto essere il cuore stesso del cinema, e come potrebbe essere altrimenti; Massimiliano, il più bel romano ch’io conosca, e ne conosco tanti!; Daniele, Angelo, Simone…; dai costumi, Ilaria, Martina, Marianna (Mariannina!… mi perseguitavi, era bellissimo!); e Guillem, naturalmente, che corteggiavo per scherzo, che bell’uomo!; e poi… Fenix, che mi truccava e pettinava, e io lì, a godermi le sue carezzine… Ho sempre adorato andare dal barbiere, solo per esser pettinato, figuriamoci ogni giorno!, che figata!… I fonici, Marco e Alberto, splendidi professionisti, instancabili… Gli elettricisti, Gianluca e Luis; i macchinisti, Francesco e Mirko; la scenografia: Paula, Laura, Emilia, Corrado, Fabrizio, Federico… Fino all’amministrazione, Lorenza e Massimiliano… Spero davvero di non dimenticare nessuno, se così fosse, vi chiedo scusa, ma scusa davvero! Perché siete stati tutte e tutti semplicemente meravigliosi. Non è retorica della riconoscenza, questa, neanche un po’. Siete veramente entrati tutte e tutti nel mio cuore.

Carmelo Bene, il provocatore, il geniale polemista, il reazionario (ce ne fossero ancora, in giro, di reazionari così…), usava dire che il cinema è la discarica dell’arte. Adesso lo so: aveva torto, torto marcio.

Perché il cinema, se soltanto lo vuole, sa essere momenti di vita vera, finalmente autentica. Della serie: vita mia, a noi due!

E che vita sia.

***

Le città di pianura di Francesco Sossai è il racconto dell’incontro tra uno studente di Architettura (Filippo Scotti) e due uomini (Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla) con una sola missione: battere tutti i bar del Veneto alla ricerca di un ultimo bicchiere. In un on the road notturno e tragicomico, nascerà un’amicizia che cambierà tutti e tre. Presentato all’ultimo Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, il film uscirà nei cinema di tutta Italia con Lucky Red il 2 ottobre.

Iscriviti
Exit mobile version