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‘Peter von Kant’: solo Ozon poteva rifare Fassbinder (e farla franca)

Il libero remake delle ‘Lacrime amare di Petra von Kant’ è un omaggio filologico, ma anche un dialogo del regista francese con sé stesso e la propria poetica queer. Un consiglio ai puristi: non storcete il naso, tenetevi stretto un autore così

Foto: Carole Bethuel/Academy Two

L’altra sera un’amica cinematografara diceva «vogliono solo remake, reboot, cose “tratte da”, la serie tratta dal libro, o la serie dal film, tutto così», insomma: quello che vediamo su tutte le piattaforme, infatti hanno appena iniziato a girare Il gattopardo, e no, non siamo negli anni della bella confusione. È così per i colossi (gli streamer, come si dice oggi), ma forse la moda (il trend, come si dice oggi) ha contagiato un po’ tutti. Infatti leggi Peter von Kant di François Ozon e pensi: urca, ma c’era davvero bisogno?

Peter von Kant è ovviamente la versione maschile di Petra von Kant (quella delle Lacrime amare di), ed è un von Kant che è ovviamente Fassbinder, stesso baffo, stessi occhiali aviator, stessi giacchini di pelle, stessa pinguedine decadente. Il film ha aperto Berlino l’altr’anno, arriva nelle sale solo oggi (distribuito da Academy Two) per gli sparuti spettatori ormai rimasti per questo tipo di film. Film per pochissimi che rifanno/omaggiano vecchie opere ormai per pochissimi: una volta invece quella platea era più larga, che bei tempi, che nostalgia – anche per chi, come me, è nato dieci anni più tardi; nostalgia di ritorno, nostalgia per conto terzi, ma vabbè.

Dunque, questo von Kant/Fassbinder, interpretato da quel gigante d’attore che è Denis Ménochet (vedi il capolavoro As bestas di Sorogoyen), è un regista pieno di vanità e insicurezza (spesso vanno insieme), con le pizze dei suoi film dentro casa, e i ritratti delle sue muse che si succedono di epoca in epoca sulle pareti del grande appartamento a Colonia dove passano vecchie attrici (magnifiche Isabelle Adjani e Hanna Schygulla), un nuovo amante, una figlia, un servo muto e vessatissimo. È in stallo creativo, la prossima sceneggiatura non si sblocca, odia tutto e tutti, si lascia andare a un amore distruttivo che però, a suo modo, lo rimette al mondo, tra litri di gin tonic e viaggi che non farà mai, i voli (una volta prenotati al telefono, altra nostalgia di ritorno) si rimandano, si cancellano, in quella sua specie di lockdown fané autoindotto.

Ozon è specialista di Kammerspiel ma sempre venati di commedia umana e grottesca, dal primissimo Sitcom a Gocce d’acqua su pietre roventi alla hit 8 donne e un mistero, e stavolta torna da quelle parti per un tributo d’artista a un artista. Ma lui sa di essere il fratello minore, il derivato seppur di meritato successo; sa di essere più piccolo ma anche di poter reiventare il mondo di qualcun altro facendolo assomigliare al proprio, fino a confonderli, a confondersi.

A Ozon piace rifare a sua immagine il cinema di ieri, dalla commedia anni ’50 (Potiche – La bella statuina) a, di recente, il giallo da teatro borghese anni ’30 (l’appena uscito Mon crime – La colpevole sono io). Ma mai operazione era stata filologica quanto questo Peter von Kant, che è dialogo con sé stesso e il suo cinema, esercizio di eredità e (ri)posizionamento queer, per così dire, nel mondo di oggi. Un cinema che, anche se forse farà storcere il naso a qualche purista, è ancora vivo, dialettico, pieno di invenzioni – qui: la sostituzione delle muse (è successo anche nel cinema dello stesso Ozon, da Charlotte Rampling a Ludivine Sagnier, da Catherine Deneuve a Marine Vacth, da Isabelle Huppert a Nadia Tereszkiewicz), la legge che è sempre quella del più forte (che però non è mai quello che reputiamo tale), il gusto novecentesco di un cinema che è letteratura, arte, anche noia esistenziale, tentativo, errore.

Isabelle Adjani, Hanna Schygulla e Aminthe Audiard. Foto: Carole Bethuel/Academy Two

Quanto al discorso sul queer, Ozon è forse l’unico autore europeo mainstream insieme ad Almodóvar (in Francia l’ultimo Mon crime è uno dei casi della stagione) a non retrocedere rispetto al proprio immaginario, a una militanza sempre però leggera, a una sempre aggiornata normalizzazione (chiedo scusa per la parola) dei suoi temi d’elezione presso un pubblico sempre più ampio. (In Italia… ecco, in Italia?)

Ozon continua a fare film molto belli e molto sottovalutati (vedi Estate ’85, di tre anni fa), forse arriverà a sempre meno spettatori, ma quei pochi che se lo tenessero stretto, un regista così.

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