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Perché Beyoncé non è diventata una star del cinema (e non può più diventarlo)

Gli esordi dimenticati, gli ‘scult’ come ‘Austin Powers’ e ‘La Pantera Rosa’, fino al sogno (infranto) di ‘Dreamgirls’. A star isn’t born, ma forse aveva ragione lei: i film Queen Bey se li è fatti da sola

Foto: Universal Pictures

Questa è la storia di come non è nata una stella. E non solo perché Beyoncé Knowles avrebbe dovuto interpretare l’ultimo A Star Is Born (2018), epilogo di una lunga faccenda di copioni che passavano da una mano all’altra – comprese quelle di Clint Eastwood, che voleva proprio lei come protagonista – e che poi sono finiti in mano a Bradley Cooper e Lady Gaga. Il fatto è che, da un certo punto in poi, Beyoncé è stata troppo Beyoncé, troppo la signora Carter, troppo Queen Bey per poter interpretare altro che sé stessa. Eppure, all’inizio, le cose sembravano andare diversamente.

Vent’anni fa, ai tempi in cui la cosa più nuova e cool erano i video musicali, Beyoncé debuttò come attrice per MTV in un tivù-movie sperimentale, ispirato alla Carmen o, meglio, al musical Carmen Jones, a sua volta derivato dall’opera. Però in versione rap e ambientato a Filadelfia, con Carmen che non è una sigaraia ma un’aspirante attrice e anche un po’ una specie di Malèna che, con la sua bellezza, paralizza tutta la città. Il film si intitolava Carmen: A Hip Hopera. Citazionismo spericolato, all’ennesima potenza. Il regista è Robert Townsend, una figura di riferimento per il mondo black (ha anche diretto un paio di film di Eddie Murphy), tra gli interpreti ci sono Wyclef Jean e Jermaine Dupri. Sul cartellone, Queen Bey si presenta ancora con nome e cognome: Beyoncé Knowles.

Ai tempi, era il 2001, era “solo” la frontwoman (e autrice di canzoni) del gruppo femminile Destiny’s Child. Aveva vent’anni e per la prima volta si trovava da sola, lontana da casa, a Hollywood. Non sapeva nulla di recitazione, era terrorizzata. In più, Carmen: A Hip Hopera prevedeva una scena di seduzione, con tanto di bacio. Il giorno in cui avrebbe dovuto girarla, Beyoncé andò nel pallone e disse al regista che non era sicura di farcela. Non aveva mai baciato nessuno, a parte il fidanzatino lasciato a Houston. Townsend le consigliò di chiudere gli occhi e immaginare che l’attore da baciare non fosse Mekhi Phifer ma il suo ragazzo. Funzionò.

E funzionò così bene che, dopo averla vista in Carmen, il produttore John Lyons la cercò per farle interpretare la partner di Mike Myers nel terzo film della saga Austin Powers, Austin Powers in Goldmember. Non tutti erano d’accordo, c’era chi voleva Jennifer Lopez, più nota e con molta più esperienza. Ma Lyons insiste e convince il regista Jay Roach a fare un provino a Beyoncé. Il ruolo è quello di Foxxy Cleopatra, omaggio alla blaxploitation fin dal nome, che mette insieme quelli di due eroine del genere, Foxy Brown e Cleopatra Jones. Le recensioni del film, un sequel un po’ trito, sono giustamente tiepide, ma salvano la “rivelazione” Beyoncé. Il New Tork Times scrive: «La signorina Knowles, cantante delle Destiny’s Child, se la cava alla grande, peccato che sia poco e male utilizzata». Il grande critico Roger Ebert enfatizza: «Foxxy Cleopatra è il personaggio che mi è piaciuto di più del film, purtroppo le danno troppo poco da fare!».

Segue un’altra commedia, stavolta da protagonista: è The Fighting Temptations con Cuba Gooding Jr., recente vincitore di un Oscar. Sulla carta potrebbe essere un successo, invece non se ne accorgono in molti, e comunque il personaggio di Beyoncé (mamma single canterina e dal cuore d’oro, uno zucchero da mal di denti) appare in scena quasi a metà film. Segue un altro ruolo inutile, quello di Xania, popstar internazionale nel remake della Pantera Rosa con Steve Martin. Proprio mentre lo promuove, Beyoncé annuncia che sta per interpretare un altro film, il film della vita: Dreamgirls. Anche questo è un vecchio progetto che gira da tempo: il musical aveva debuttato a Broadway nel 1981, e già nell’87 si era parlato di un film con Whitney Houston nel ruolo di Deena, personaggio ispirato a Diana Ross. Whitney si accorge subito di una trappola: le canzoni migliori del musical non sono quelle di Deena, ma quelle di un altro personaggio, Effie. Non se ne fa nulla.

Vent’anni dopo Beyoncé non si si rende conto del rischio o comunque decide di correrlo. Il ruolo di Effie, quella con le canzoni che rubano la scena, va alla sconosciuta Jennifer Hudson e sappiamo come è andata finire: lei ha vinto un Oscar mentre Beyoncé sorrideva, sconfitta ma regale come sempre, in platea. Dopo Dreamgirls, imparata la lezione, arriva Cadillac Records: è tutto perfetto, Beyoncé interpreta Etta James, stavolta ha i pezzi giusti, ma il film non funziona. Ed ecco perché prova a farne subito dopo uno, Obsessed, in cui non canta nemmeno sotto la doccia. È un brutto thriller e il botteghino è disastroso. Soprattutto, non ci si spiegava come mai Idris Elba (il marito nel film) non chiedesse alla moglie di ballare in body di paillettes anziché passare il mocio in cucina.

Da allora, Beyoncé si è ritirata come attrice. Ma, diversamente da Greta Garbo, non ha smesso di fare “cinema”. Ha firmato, anche come autrice, due documentari – il migliore è lo straordinario Homecoming (Netflix) – e poi ci sono i video, i visual album come Lemonade e l’ultimo, Black Is King. Nelle cose che ha fatto da quando ha smesso di fare l’attrice, c’è molto più cinema che in tutti i film girati prima. Penso al video del Louvre con Jay-Z o a quello di Brown Skin Girl in Black Is King. Quanto è brava, Beyoncé: ha capito presto, a sue spese, che il passivo ruolo di attrice è ben poca cosa quando si ha il potere (e la fantasia) di creare nuovi mondi a propria immagine e somiglianza. E a noi fa capire anche che il cinema, così come lo abbiamo conosciuto, o cambia pelle o muore.

Paola Jacobbi è autrice del libro Beyoncé – L’ape regina, appena uscito per Kenness.

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