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Paul Thomas Anderson, mica (Licorice) pizza e fichi

Il più bravo di tutti firma una storia piccolina e grandissima insieme. Un’epica losangelina sul diventare adulti (o forse restare ragazzini per sempre) con due nuovi volti formidabili: Alana Haim e Cooper Hoffman

Foto: Eagle Pictures

«Los Angeles / Give me a miracle / I just want out from this». Così inizia Los Angeles, appunto, strepitoso pezzo delle strepitose sorelle HAIM che è autofiction in purezza, come si dice oggi. Le HAIM stanno a Los Angeles come M¥SS KETA a Milano, nei loro pezzi c’è la luce (perdonate il lirismo) che è quella della Valley e quella del cinema. E infatti, pochi versi dopo: «New York is cold / I tried the winter there once, nope / Clearly the greatest city in the world / But it was not my home / I felt more alone». Non è questione di bello e brutto classicamente intesi (L.A. per quasi tutti è un posto bruttissimo, per me è il più bello del mondo). È saper scorgere e restituire la faccia della città «che apparentemente una faccia non ce l’ha: e invece, se riesci a vederla, scopri che è bellissima», mi diceva di recente un’attrice italiana che ha vissuto lì per anni.

Anche Paul Thomas Anderson è losangelino, no: della San Fernando Valley. Paul Thomas Anderson sta a Los Angeles come Carlo Verdone a Roma. Paul Thomas Anderson ha girato a Los Angeles tutti gli ultimi video delle HAIM (anche l’ultimissimo, bellissimo). In Licorice Pizza, il suo ultimo film piccolino/grandissimo finalmente nei nostri cinema dal 17 marzo, ha voluto come protagonista Alana Haim, l’ultimogenita (ma ci sono anche le sue due sorelle, nel ruolo delle sorelle; e i genitori, nel ruolo dei genitori). È Los Angeles, è autofiction, è un altro miracle.

Quando ho visto Licorice Pizza ormai mesi fa, prima che anch’io mi pigliassi il Covid, ho pensato: grazie a dio questo virus c’è stato, altrimenti questo film non sarebbe esistito mai. Si capisce che è nato per colpa/grazie alla pandemia, che Paul Thomas Anderson era costretto a Los Angeles e così le amiche HAIM, e che insieme hanno pensato: facciamo una cosa insieme, una cosa che sia però un po’ più di un video.

Ne è venuto fuori, alla solita maniera del suo autore, un film mastodontico. Licorice Pizza, dicevo prima, è una storia piccolina. Sempre dai versi di Los Angeles: «Hometown of mine / Just got back from the boulevard, can’t stop crying / The guy at the corner shop gave me a line and a smile / I know he was trying / But a lie is a lie». E più o meno è così pure qui. Gary (Cooper Hoffman, figlio di Philip Seymour Hoffman: a proposito di autofiction, di amicizia, pure di lacrime) è un teen actor di seconda fila; incontra Alana (ovviamente Alana Haim), assistente di un fotografo capitata nel suo liceo per gli scatti dell’annuario scolastico. Fine.

Non che non ci sia sviluppo, anzi. C’è una piccolina/grandissima educazione sentimentale, però sulla base di momenti da poco, di minuzie, di spostamenti impercettibili del cuore. E, tutt’attorno, c’è la Los Angeles fluorescente e rabbiosa dei primi anni ’70: il cinema degli ultimi divi (qui incarnati in un colpo solo da uno Sean Penn un po’ William Holden un po’ Steve McQueen: splendido), la politica piena di ingenui ideali (in realtà vogliono tutti solo scopare), le sale giochi, il moroso parrucchiere di Barbra Streisand (quello che mise i soldi per rifare È nata una stella: qui è Bradley Cooper), il boom dei ristoranti giapponesi e dei materassi ad acqua, la crisi del petrolio, Tom Waits (in presenza), David Bowie (in colonna sonora), quella luce, ancora il cinema.

Ho sempre preferito il Paul Thomas Anderson già sulla carta piccolino (almeno apparentemente), rispetto a quello grandissimo. Licorice Pizza è forse il più piccolo dei piccolini: eppure, nelle sue mani, diventa epica. Un’epica del girare attorno ai fatterelli, alle figurine, a Los Angeles: come Boogie Nights, come Vizio di forma. Un’epica sul diventare grandi, o forse sul restare ragazzini per sempre. Non c’è nient’altro, c’è tutto. Paul Thomas Anderson è probabilmente il più bravo, di certo il più sorprendente: in un’era in cui il cinema vive l’impasse delle storie già viste, piccoline o grandissime che siano, lui ti porta ogni volta da qualche altra parte, dove vuole lui, dove non sai, dove non sei mai stato. Anche se è la solita L.A.

E, senza bisogno di prendere posizioni ideologiche, racconta un (non) amore che parla anche alle e delle relazioni impiastricciate dell’oggi. Un ragazzo giovanissimo, una ragazza più grande (formidabili Cooper e Haim, che capacità di vedere attori enormi in gente che non lo era mai stata prima), e tra loro qualcosa che è un po’ più dell’amicizia e un po’ meno dell’amore, o forse un po’ meno dell’amicizia e un po’ più dell’amore. Non si capisce cos’è, e del resto non importa. Così come – nell’epoca, la nostra, in cui tutto va etichettato, spiegato, siglato – non importa chi sono, cosa fanno, cosa sognano. Bisogna solo stare lì e guardarli, e qualcosa succede, si incastra. La pizza e la liquirizia finiscono per accoppiarsi bene. E si scorge la faccia nascosta delle cose grandissime che capitano a tutti, e che stupidamente ci sembrano troppo piccoline per essere raccontate.

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