A un certo punto Alejandro González Iñárritu dice la cosa che illumina anche più dei proiettori che passano il suo film: «A me non piace rivisitare il passato». Lo dice mentre introduce Sueño perro, la bellissima installazione appena aperta alla Fondazione Prada di Milano che invece nel passato ci va eccome: Amores perros usciva 25 anni fa (come siamo vecchi!), ed è lì che il regista ritorna, da lì riparte. Ma «non c’era nulla di pianificato, nessuno scopo preciso: questa è un’esplorazione, una sperimentazione».
Iñárritu non parla la lingua della nostalgia, il che me lo rende ancora più simpatico (lo è già di suo). E difatti questa installazione non è un’opera(zione) passatista. È una specie di scatola dei sogni dove, su vari schermi, passa tutta la pellicola rimasta fuori da quel film che ha marcato uno stile, che ha imposto un nuovo autore e un nuovo canone, poi imitatissimo (male) da chiunque nei primi anni 2000. Più di 300 chilometri di pellicola il girato originale, nel film ne erano finiti giusto 15mila metri: «È vero che i film si fanno con l’1 per cento del girato». Tutto il resto, o quasi, rieccolo qui, senza continuità narrativa.
«Mi è piaciuto liberarmi dallo storytelling, lasciare che chiunque possa trovare la sua storia, il suo ordine narrativo», dice lui. «Ho voluto creare questa specie di dark room che è un gioco, e soprattutto un sogno». Prima di tutto, quello di un regista che gioca, nel suo cinema e in tutto quello che gli sta attorno, con le possibilità della visione come esperienza sensoriale, prima che narrativa. Alla Fondazione Prada aveva già portato Carne y arena, era il 2017, era un incubo: il confine messicano, la polvere, i migranti visti, con occhiali VR, come morti viventi, così la politica li voleva e li vuole ancora.
Anche qui c’è la politica. A Sueño perro si accompagna Mexico 2000: The Moment That Exploded, una raccolta di fotografie, articoli di giornale, tracce di vita e di morte selezionate da Pablo Ortiz Monasterio. Cani randagi davanti a candele che vegliano su chi non c’è più, presagi di sventura che sbucano, travestiti da scheletri, dalle stazioni della metropolitana. È la Città del Messico che ha originato anche la storia del film, fatta di drammi (molti) e speranze (poche).
Foto: Marta Martinotti/Fondazione Prada
Ma Sueño perro è, per l’appunto, un sogno, «ed è davvero come quando sogni: trovi le persone che già conosci ma in altri luoghi, come se non ti ricordassi bene chi sono, cosa hanno fatto con te». Anche noi ritroviamo Gael García Bernal e tutti gli altri, a tutto schermo, in quel «labirinto di luce» dove vengono mostrati anche i ciak, le prove sul set, la pellicola che salta, «è tutto crudo, non c’è nessuna color correction, è come se mettessi in piazza i miei panni sporchi».
«Non amo rivisitare il passato», dice Iñárritu, e dice anche che «non mi interessano i nuovi director’s cut: il film è quello che hai fatto», non esistono altre versioni. Però «mi piace sapere cosa c’è dietro un film, capire cosa dice oggi. Il passato mi interessa solo se può indagare il presente».
La scatola magica di Sueño perro è un glorioso tempio del e al passato. Ancora più delle immagini sugli schermi, a incantare è proprio la pellicola che gira nei proiettori che sembrano monoliti, arrivati qui insieme ai loro operatori «che sono sempre meno». Ma, anche qui, senza nostalgia. Senza dire che il presente è brutto, anzi.
«Noi messicani non siamo astratti, minimalisti: siamo massimalisti», e questo è un tempio minimalista dedicato al massimalismo d’autore, cioè alla visione di un regista che intende il cinema come esperienza totale, al di là del singolo film. Questo in fondo non è un anniversario, non è una celebrazione: se mai, un’esercitazione. Amores perros quasi scompare, diventa altro, l’oggetto di un altro tempo, di questo tempo.
Tutto si fa, tutto si distrugge, tutto si rigenera. Tutto è materia. «Come quando in sala parto nasce un bambino e sul pavimento resta la placenta. E quella placenta è uno scarto, ma è piena di vita». Sueño perro nasce da quella placenta, e viene in mente la prima scena dell’ultimo film, piuttosto incompreso, di Iñárritu. All’inizio di Bardo, un bambino nasce e pensa: no grazie, in questo mondo non ci resto, torno nella pancia della mamma. È quello che fa Sueño perro, un sogno che riavvolge il nastro. No: la pellicola.
