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‘Nope’, ai confini del cinema

Hollywood, gli UFO, i soliti brividi horror. C’è tantissima roba nel nuovo film di Jordan Peele, per alcuni troppa. Ma il regista, da Autore maiuscolo qual è, vince ancora. Perché ha il coraggio e la libertà di fare un cinema che assomiglia solo a sé stesso

Foto: Universal Pictures

Se è vero che un Autore, di quelli importanti, quelli con la A maiuscola, fa sempre lo stesso film, è molto probabile che, prima o poi, farà anche un film sul Cinema (sempre con la maiuscola, eh, non scherziamo). Jordan Peele è un Autore? Certo che sì, e uno dei pochissimi in grado di generare eccitazione in un pubblico ampio e trasversale con ogni suo nuovo progetto. Jordan Peele fa sempre lo stesso film? Dipende. Jordan Peele ha fatto un film sul Cinema? Sì, è Nope, in Italia è in sala dall’11 agosto dopo aver già esaltato (e inevitabilmente anche un po’ diviso) critica e pubblico USA.

Dici “Jordan Peele” e subito pensi “social horror” o “social thriller”: d’altronde è lui ad aver dato il via al proficuo filone contemporaneo che utilizza il cinema di genere per dar forma visivamente e narrativamente potente a istanze politiche. Qualcosa che il cinema dell’orrore e della suspense ha sempre fatto – consapevolmente oppure no: lo stesso Peele curò qualche anno fa per la Brooklyn Academy of Music una rassegna social thriller che comprendeva, tra gli altri, Rosemary’s Baby, La notte dei morti viventi, Shining, Il silenzio degli innocenti e La casa nera, ma anche titoli apparentemente rassicuranti come Indovina chi viene a cena? –, ma che dall’enorme successo di Scappa – Get Out è diventato sempre più scoperto ed esplicito, e nei casi migliori maledettamente efficace. Da L’uomo invisibile con Elisabeth Moss al remake di Candyman di Nia DaCosta prodotto dallo stesso Peele, da cult indie come Sorry to Bother You e Assassination Nation all’evoluzione della saga Blumhouse The Purge, fino a serie tv come Them e Lovecraft Country, la tendenza è innegabile e la formula – “travestire” da metafora fantastica e/o distopica gli orrori quotidiani e sistemici del razzismo, della misoginia, dell’omofobia e delle supremazie discriminanti – si presta a infinite declinazioni.

Nella sua più diffusa incarnazione, il social thriller finisce per essere trasparente: il messaggio diventa visibilissimo e fondamentale, qualche volta si mangia tutto il resto, anche se quasi sempre a fin di bene. Invece Jordan Peele Autore cinematografico con la A maiuscola sembra andare in una direzione opposta: se Scappa – Get Out era un’allegoria precisissima e acuminata in cui tutto tornava (l’ipocrisia bianca e lo sfruttamento del corpo nero), già il successivo Noi (o Us, per usare il titolo originale, che evidentemente sta anche per “United States”) era una costruzione più sfuggente, un rompicapo in cui non tutto sembrava incastrarsi al primo colpo. E infatti: da un lato a molti spettatori e a qualche critico era piaciuto un fil0 meno di Scappa, dall’altro, però, s’erano moltiplicati come gremlin bagnati gli articoli online e i video YouTube che tentavano una spiegazione, una decifrazione, una soluzione dell’enigma. Lo stesso è successo, negli Stati Uniti, con Nope, che ancora una volta ha alzato la posta: da un lato è ancora meno immediatamente leggibile, se si cerca la metafora semplice, dall’altro è pienissimo di cose, suggestioni, significati.

Come – e forse più – dei due titoli precedenti, Nope è uno di quei film di cui è bene sapere poco quando ci si siede in poltrona (se vi piace, probabile che poi, proprio come i primi due, avrete voglia di rivederlo subito, con l’ausilio del senno di poi). I protagonisti sono O.J. (Daniel Kaluuya; sì, un ragazzo nero che si chiama O.J.: l’ironia non passa inosservata) e Emerald (Keke Palmer, sorprendente), fratello e sorella dai caratteri agli antipodi, lui introverso e silenzioso, lei estroversa, casinista e loquace. Ereditano l’impresa di famiglia, ovvero un ranch nel deserto californiano che da tempo immemore alleva, addestra e fornisce cavalli alle produzioni cinematografiche e televisive hollywoodiane, l’unica azienda del suo genere a gestione afroamericana. O.J. e Emerald d’altronde – sostengono loro – sono i discendenti della “prima star del cinematografo”, ovvero il fantino immortalato dal britannico Eadweard Muybridge nel primo esempio noto di fotografia in movimento. Insomma, hanno «the skin in the game» praticamente da sempre, per dirla con parole loro. Non è uno spoiler svelare che in questa storia c’entrano gli UFO (trailer e locandine l’hanno fatto più che intuire), ma dettagliare quando e come rischia di compromettere un piacere oggi sempre più raro al cinema: quello di guardare una storia senza sapere dove sta andando. Certo, il rischio è quello di ritrovarsi in territori sconosciuti e magari anche scomodi: ma non vale la pena correrlo, ogni tanto? In quest’epoca di standardizzazione e algoritmi, è un gesto coraggioso.

Se in Nope cercate (solo) un social thriller trasparente e ineludibile alla Scappa – Get Out, potreste faticare un po’: la questione razziale c’è, naturalmente, ma così come in Noi era inestricabilmente intrecciata a quella di classe, qui il tutto si tiene in un discorso complesso sul vedere, il guardare, il filmare. Sullo spettacolo, sull’effetto che (ci) fa, sulle sue conseguenze. Sulle sue (e le nostre) responsabilità. Insomma, Nope è un film sul Cinema sfacciatissimo, che si avventura anche nel confronto tra analogico e digitale, nella dipendenza dall’effetto speciale, nell’ossessione per la perfezione o per la viralità. Come in ogni film su Hollywood, è la fama il vero mostro, la balena bianca che si trascina dietro tutto il resto, fino ai confini del mondo. Ma se temete l’eccesso di teoria, tranquilli: Jordan Peele è un Autore che fa sempre lo stesso film nel senso che, anche mentre critica lo spettacolo, sa come s’imbastisce un grandissimo e coinvolgente intrattenimento. Sa piegare e sovrapporre i generi per spremerne forme nuove: Nope ha dei momenti indiscutibilmente horror (proprio di quelli basilari, da salto di spavento e da tensione insostenibile), ma come Scappa e Noi ha anche irresistibili tratti di commedia – e come non potrebbe, visto che Peele si è formato prima di tutto come comico, e prima di passare alla regia ha raggiunto il successo negli Stati Uniti grazie alla serie di sketch Key & Peele?

Steven Yeun in una scena del film. Foto: Universal Pictures

Nope è sicuramente anche un western, sia per ambientazione – il ranch, i cavalli, soprattutto la vastità dei paesaggi – sia per temi – c’è qualcosa di selvaggio da “domare”, c’è un senso di pericolo invisibile ma sempre presente –, e il western è insieme uno dei generi fondativi dell’immaginario americano e uno di quelli da cui, pervicacemente, le persone nere sono state escluse (al punto che oggi, quando in scenari western compaiono personaggi neri, c’è chi si lamenta e grida all’implausibilità storica: ma è esattamente il contrario, i neri nel West ci sono sempre stati, la cancellazione è venuta prima, appunto, col cinema). Di nuovo, per la terza volta, Nope è un film di fantascienza, un possibile mega episodio, aggiornato all’oggi, della grandissima serie classica Ai confini della realtà (non a caso, Peele ne ha co-prodotto e presentato anche un recente revival, che però non è stato per nulla fortunato, a differenza della serie madre; sempre in ambito serie distopiche antologiche, su YouTube Premium ha co-creato Weird City, dove esplora i suoi soliti temi con vena più apertamente satirica). E Ai confini della realtà, il cult anni ’50-’60, ideato e presentato da Rod Serling, in grado di arruolare tra i suoi sceneggiatori i migliori scrittori di fantascienza del periodo, era già “social thriller”: la sua forza era quella di lasciare sempre accesa nello spettatore, anche dopo il finale, una spia di inquietudine, impossibile da scacciare, fondamentale per tenerci in guardia.

C’è anche tantissimo cinema altrui, in Nope, che per molti versi è anche una versione cupa di Incontri ravvicinati del terzo tipo, una sorta di parabola anti-spielberghiana, l’antitesi della meraviglia dipinta sulla celebre Spielberg Face. Ci sono Shyamalan, e dunque Hitchcock, e una spruzzata di Tarantino (in certi momenti sembra quasi di essere finiti in una tangente di C’era una volta a… Hollywood), e chiaramente Lynch. C’è la televisione nella sua incarnazione più codificata, la sitcom, dal cui eterno ritorno ultimamente non riusciamo a sfuggire (avete detto WandaVision?). C’è tantissima roba in Nope, qualcuno senza dubbio dirà che ce n’è troppa. Soprattutto, però, c’è Jordan Peele, più libero che mai, determinato con ambizione e audacia (e un notevole budget) a prendere tutto il suo cinema e a portarlo in strade sconosciute, per vedere fin dove può arrivare la frontiera: come da ogni Autore con la A maiuscola, non è che non ci aspettiamo capitomboli, ma attendiamo già il prossimo capitolo con fremente curiosità.

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