Non siamo stati più gli stessi dopo che abbiamo visto ‘Flashdance’ | Rolling Stone Italia
She's a maniac on the floor

Non siamo stati più gli stessi dopo che abbiamo visto ‘Flashdance’

(Semicit. Nanni Moretti) 40 anni dopo il film starring Jennifer Beals è ancora (usiamo una parola bruttissima) iconico: non solo 'Caro diario' e J.Lo, ma pure 'Boris 4'

Flashdance

Foto: Paramount

C’è una parola bruttissima (e questa volta non c’entra la querelle inglese/italiano), abusatissima, che affolla la lingua con usi spregiudicatissimi e contesti in cui spesso vuol dire tutto, ma anche niente: “iconic”, o “iconico” a voler essere nazionalisti. Ecco, per una volta su Flashdance quell’aggettivo può essere speso a proposito, Google dixit, dove a fianco del titolo compare una riga sì e una riga pure: iconic movie, iconic role, iconic songs, iconic fashion.

Di diventare iconic non se lo aspettava di certo la protagonista Jennifer Beals, che aveva appena 18 anni quando interpretò la saldatrice-wannabe-ballerina Alex Owens e, dopo il film, tornò a studiare letteratura americana a Yale. E non ci sperava granché nemmeno il regista Adrian Lyne (che poi piazzerà la tripletta 9 settimane e ½, Attrazione fatale e Proposta indecente, ma questa è un’altra storia): “Le aspettative erano pari a zero, non sono riuscito a parlare con nessuno dello studio per due settimane prima dell’uscita”, ha detto in un’intervista a IndieWire. “Alle anteprime avevamo avuto dei buoni risultati, ma pensavano che avessimo chiamato i nostri amici per gonfiare i numeri”. Alla fine la Paramount ha ceduto il 25% dei diritti. Ma, piccola parentesi contabile, quando Flashdance uscì il 15 aprile 1983, esattamente 40 anni fa, incassò 200 milioni di dollari al botteghino mondiale (a fronte di un budget di 7 milioni). Quell’anno negli Stati Uniti fu superato solo da Il ritorno dello Jedi e Tootsie e fu nominato per quattro Oscar (compresi fotografia e montaggio), vincendo la statuetta nella categoria migliore canzone originale per Flashdance… What a Feeling (composta dall’immortale pioniere della dance Giorgio Moroder e cantata da Irene Cara, altra icona – scusate – dei film di danza, mancata lo scorso anno). Ah, in cinquina c’era pure Maniac.

Gli anni ’80, la provincia meccanica di Pittsburgh, non più solo i diritti e la liberazione sessuale delle donne, ma l’American Dream al femminile, dove il riscatto à la Rocky incontra la grazia di Cenerentola e la cazzimma di Saranno famosi. E poi la realizzazione di sé, che passa anche attraverso il corpo (si parlerà di male gaze in Flashdance, contrapposto al piglio considerato femminista di Dirty Dancing, ma forse perché a farla da padrone è il female gaze sulle movenze di Patrick Swayze? Chiedo per un’amica) per una generazione che trascorre i pomeriggi in discoteca a ballare. Aaaah, il ballo. “In realtà il mio sogno è sempre stato quello di ballare bene”, girovagava con la Vespa e con il pensiero persino Nanni (e chi sennò). Che nel 1993 in Caro diario piazzava l’omaggio più meravigliosamente stralunato di sempre al dance movie: “Flashdance si chiamava quel film che mi ha cambiato definitivamente la vita… era un film solo sul ballo… saper ballare, e invece alla fine mi riduco sempre a guardare, che è anche bello, però è tutta un’altra cosa…”.

L’irruzione nella balera estiva a ritmo di merengue, la ricerca di Jennifer Beals nei volti di tutte le ballerine perché “io non sono stato più lo stesso dopo che ho visto Flashdance con Jennifer Beals”. Nemmeno noi dopo aver visto Caro diario. E poi sbam, passando sotto le Mura Aureliane, l’apparizione: lei, J.Be, la madonna del pellegrinaggio morettiano in una Roma afosa e deserta, che passeggia con il marito (del tempo) Alexander Rockwell. “Jennifer Beals? Di Flashdance?”. L’attrice prende Moretti per pazzo, o meglio “verso pazzo, ma non ancora, anzi, quasi scemo”. Beals e Moretti si incontrarono in giuria al Torino Film Festival nel 1984, e il resto è storia del cinema. In un pezzo sulla Stampa, Steve Della Casa scrive che Jennifer, elencando i suoi ricordi lavorativi migliori, mette al primo posto Caro diario e soltanto al secondo Flashdance (che, tra l’altro tornerà sul grande schermo in Italia il 17 giugno per l’apertura della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro). E niente, basta, mic drop, potremmo chiudere qui, c’è già tutto.

A testimonianza della sua intelligenza e lungimiranza, Jennifer Beals è riuscita a non farsi inscatolare in ruoli da “belloccia che balla”, anzi: se non esiste un sequel di Flashdance lo dobbiamo soprattutto a lei, che disse “no” e rifiutò parecchi soldi, con buona pace dei suoi agenti (ora però arriva immancabilmente una serie, tremiamo). E preferì dedicarsi al cinema indipendente: da In the Soup (Un mare di guai), recitò in quasi tutti i film del consorte Rockwell. Poi la vedremo anche in Law & Order e nell’universo di Star Wars, ma nel 2004 sceglie l’altro ruolo che definisce la sua carriera: quello di Bette, la mercante d’arte alfa in The L Word, “una sorta di Friends, ma lesbo”, come hanno scritto in diversi. Lei, che con la wet chair dance era stata il sogno del suo datore di lavoro Nick (e chissà di quanti altri), prende parte a una rivoluzione televisiva, ma anche sociale, per lo sguardo senza filtri all’amore e al sesso LGBTQ+ per la prima volta dal punto di vista femminile: “Penso che in un certo senso si adatti all’arco di ciò che significa essere ‘diverso’ perché Alex in Flashdance viveva al di fuori della società”, ha spiegato di recente Beals. “Non ha una famiglia su cui fare affidamento, è sola e per questo diventa se stessa più che mai, piena di risorse e il più possibile autentica, attraverso la danza. Credo che Bette in qualche modo sia una sorta di estensione dell’idea di cosa significhi essere in qualche modo ‘diversi’”.

Ma non divaghiamo, ché questo è un pezzo sui quarant’anni di Flashdance: iconic chiama iconic, J.Be chiama J.Lo. È il 2004, nel videoclip di I’m Glad Jenny from the Block balla da sola: assolda David LaChapelle alla regia e sfoggia i suoi riccioli naturali per tornare alle origini proletarie e girare un tributo estremamente preciso e adorante, forse fin troppo; dalla trama alle coreografie, dai costumi dalle scenografie, è tutto flashdancissimo (c’è pure il cagnolone, Grugno, con la salvietta legata al collo). Al punto che alla Sony toccò pagare una penale per violazione del copyright. Come da sua etica del lavoro, il soldato Jennifer si allena tantissimo e si mette a dieta ferrea per “diventare Alex Owens” e girare ogni singolo fotogramma del video (Jennifer Beals invece aveva ben tre controfigure a disposizione, tra le quali una ginnasta e un ballerino di breakdance). Nuova parentesi: si racconta che al montaggio volessero rendere l’iconico (pardon) lato B di J.Lo meno, ehm, prominente. E Miss Lopez si incazzò di brutto. Chiusa la digressione (necessaria), vai con l’audizione finale.

2022, ultima puntata della quarta, sospirata stagione di Boris. Altro giro, altro omaggio surreale e bellissimo. “Così de botto, senza senso” (cit.), mentre cerca di difendersi davanti agli avvocati della temibile Piattaforma, che l’ha accusato di aver girato scene extra sul set per realizzare il suo capolavoro abusivo, Io Giuda, René Ferretti “segue la musica, segue la danza” (come gli suggerisce in una visione lo sceneggiatore interpretato da Valerio Aprea, in un inchino a Mattia Torre). E in canotta, pantaloncini neri e gli iconici (aridaje) scaldamuscoli, Francesco Pannofino si esibisce nella routine di What a Feeling comprensiva di caduta, ripresa, spaccata in aria e capriola finale. L’accordo, manco a dirlo, c’è.