«Ma Ultimo tango è in versione integrale?», chiede timidamente un signore dalle prime file. Siamo al Riviera International Film Festival di Sestri Levante, e con Valentina Ricciardelli, presidente della Fondazione Bernardo Bertolucci, stiamo presentando La luna, altro film all’epoca scandaloso ma che ha superato meno di altri la prova del tempo (è, invece, bellissimo: cercatelo, ri-vedetelo). Più tardi è appunto previsto in cartellone Ultimo tango a Parigi, capolavoro conclamato ma che pare eternamente condannato: sempre lì si torna, a quella scena. LA scena. È un’ossessione, una dannazione. «Sì, è in versione integrale», lo rassicuriamo noi. Chissà se poi il signore sarà venuto. In platea, fra tutti gli altri, non l’ho riconosciuto.
Di Ultimo tango ne parlo invece, dopo la proiezione, con Valeria Golino, venuta a Sestri post-David per parlare (anche) dell’Arte della gioia, ma pure in qualità di testimonial, diciamo così, della Fondazione Bernardo Bertolucci. Di BB è stata amica, dalla fine degli anni Ottanta, quand’erano entrambi hollywoodiani (lei Rain Man eccetera, lui prima di sbancare gli Oscar con L’ultimo imperatore), e poi per sempre. «Siamo anche andati vicini a lavorare insieme», dice lei, «non ci siamo riusciti. Di certo però il ruolo di Maria Schneider in Ultimo tango lo avrei fatto. È un ruolo meraviglioso, è un film meraviglioso».

Valeria Golino durante la retrospettiva Bertolucci Revolution al RIFF 2025. Foto: Nicola Bottinelli
C’è LA scena, e c’è IL ruolo. La mattina di quel giorno, al RIFF – un concorso di opere di autori e autrici under 35, tanti documentari, ospiti illustri ad animare incontri e masterclass – c’era stata appunto una masterclass con Matt Dillon. Dillon l’anno scorso è stato protagonista, alias Marlon Brando, di Maria, film controverso (oggi si dice così) che racconta il set di Ultimo tango con gli occhi del MeToo di oggi, per farla breve. (Non sto a tornare sul caso originale: lo sapete, o dovreste saperlo; e sapete come – non – è andata.)
Dal pubblico della masterclass arriva una domanda non certo forzosa o balorda, anzi del tutto legittima. Dillon ha interpretato Brando in un film che parla proprio di Ultimo tango, e al RIFF c’è una piccola retrospettiva di film di Bertolucci (l’hanno chiamata, non per caso, Bertolucci Revolution), tra cui appunto Ultimo tango. Nell’incontro, Dillon aveva appena detto che, da attore, gli piace «colorare fuori dai contorni», avere la libertà di improvvisare, di osare (“Never stop daring” è pure il claim del RIFF di quest’anno). E allora – questa è la domanda – come si pone rispetto a tutto quello che ancora oggi solleva Ultimo tango? Rispetto a questo bisogno – sì forzoso, o almeno forzato – di scegliere punti di vista a volte parziali, e molto spesso incuranti di qualsiasi fonte, testimonianza di chi c’era, dichiarazione della stessa attrice protagonista dell’epoca.
Dice, Dillon, di essere un grandissimo appassionato del lavoro di Bertolucci. E di essere contro ogni forma di censura, ma anche di «exploitation»: è la sola parola che usa, lo dico perché vi servirà nel finale di questo articolo. Però, aggiunge, non ne so di più, di quello che è successo su quel set. Dice anche che Maria Schneider, all’epoca delle riprese neanche ventenne, veniva da un’adolescenza difficile. Si portava dietro traumi, ferite, strappi che forse un copione come quello, che pure aveva letto e accettato (questo lo dico io), ha evidentemente scatenato di nuovo (oggi si direbbe: triggerato). E quello fa male a tutti, certamente. (Durante una cena del giorno dopo, Dillon torna off the record su Bertolucci. Dimostra di esserne, effettivamente, un grande appassionato e pure un grande conoscitore. Dice anche altre cose, a proposito di Ultimo tango, che però sono appunto off the record, e che dunque non riporterò qui.)
Con Valeria Golino decidiamo, prima della nostra chiacchierata, di rivedere l’ultima mezz’ora del film. Ci mettiamo in fondo alla sala, ci giriamo ogni due minuti a dirci: «Ma come ha fatto», «Ma quelle luci», «Ma Marlon Brando» (su Brando diciamo cose qui irripetibili). Ci diciamo che quando il cinema è così grande basta a sé stesso, e a tutto il resto. Diremo poi pubblicamente che l’atto, il gesto non necessariamente eversivo ma certamente potente, intrepido, punk che rappresentò Ultimo tango all’epoca gli sopravvive ancora oggi. È immutato. Perché potente, intrepido e punk lo è sempre stato Bertolucci, e lo è ancora. Never stop daring.
L’analisi socio-politica migliore su Ultimo tango della giornata – e una delle migliori che abbia mai sentito a proposito del film in assoluto – la fa una signora del pubblico. Avevo diciott’anni quando uscì il film, racconta, e i miei non mi mandarono a vederlo sicuramente per quelle scene (per LA scena), ma soprattutto perché – dice lei dopo averlo rivisto oggi, per la prima volta al cinema dopo tante visioni sempre domestiche – dava un messaggio che era più scandaloso ancora. Diceva che dopo una morte, dopo un dolore, ci si può liberare cercando il sesso. Di più: che il sesso può essere il modo in cui si sceglie di vivere un lutto, un dolore. E quello, per una famiglia perbene come la mia, era il vero messaggio irricevibile (e potente, intrepido, punk). È un’analisi che dice una verità essenziale, che oggi pare sempre più scansata: che la complessità, in fondo, è sempre più facile dei dogmi. Che se la si usa per ragionare sulle cose, anche le più difficili, anche le più scomode, allora quelle cose si capiscono meglio.
Ultima scena. Siamo in treno di ritorno dal festival ed esce un articolo sul sito di un quotidiano importante. È il resoconto della masterclass di Matt Dillon. Il titolo dice, più o meno: “Bertolucci era un genio, ma mi dispiace che ci fu violenza sul set di Ultimo tango a Parigi”. Al di là della notizia errata in sé, il fatto è che Dillon quelle parole non le ha mai dette. Il titolo viene corretto. Per amor di verità, se non di punk. E allora cancelliamo gli errori, le affermazioni cieche, i dogmi facili. Ma non Ultimo tango (e Bernardo Bertolucci).