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Non avrai altro gangster movie all’infuori di ‘The Irishman’

Martin Scorsese ha presentato il suo nuovo, attesissimo lungometraggio con Robert De Niro e Al Pacino al New York Film Festival, e ci ha regalato un film straordinario, molto più di un greatest hits

“Per quanto riesca a ricordare, ho sempre voluto essere un gangster”. Tutti quelli che hanno visto Quei bravi ragazzi almeno una dozzina di volte e possono citarlo a memoria – e cioè praticamente tutti quelli che hanno visto Quei bravi ragazzi – sa cosa viene prima appena prima che Ray Liotta pronunci quella battuta: un corpo pugnalato, un lenzuolo insanguinato, un bagliore rosso vivo proveniente dal bagagliaio di un’auto. Tutti ricordano quello che viene dopo, una volta che i titoli di coda sono finiti: la visione fantastica di un bambino di queste grandi inquadrature del quartiere, tutte completi vistosi, auto costose e soprannomi folcloristici. Ancora più dei film del Padrino, l’opera magna sulla mafia di Martin Scorsese getta un’enorme ombra su ogni gangster movie che è arrivato dopo. Rilasciato due anni prima che un altro regista ossessionato dal cinema trasformasse la combinazione di brividi e risate in una carriera, questa storia di ascesa e caduta rimane ancora la Stele di di Rosetta del moderno cinema gangster. Non per niente dà il via agli anni ’90.

Come molti lungometraggi sul crimine, The Irishman di Scorsese – presentato al 57esimo New York Film Festival – ha un grosso debito con quella pellicola quasi trentennale. La grande differenza, naturalmente, sta nel pedigree. E per un bel pezzo in questa prospettiva sulla vita di Frank Sheeran, lo scagnozzo della mafia diventato sindacalista, che era l’asso nella manica di Jimmy Hoffa (e, secondo il suo memoir del 2004, I Heard You Paint Houses, anche il suo assassino), c’è lo stesso mix distintivo di ironia e storia, violenza e umorismo, pop narcotics e antropologia italo-americana. “Quando ero giovane, pensavo che fossero gli imbianchini a dipingere le case”, afferma lo Sheeran interpretato da Robert De Niro in una voce fuori campo; taglio su un muro bianco schizzato di sangue a causa di un proiettile. Poi ci sono sacco di colpi di pistola e tizi che mostrano i polsini della camicia mentre passano i decenni, testimoniati dal cambiamento dei modelli delle auto e dalle dimensioni dei colletti. Fino a qui uno Scorsese molto vintage.

Ma c’è qualcosa di più grosso e significativo che il regista ha in ballo qui, oltre a mettere insieme il suo greatest hits (in più di un modo). The Irishman rivolge lo sguardo a una parte del 20esimo secolo in cui il sindacato, il crimine organizzato e il governo americano giocavano a tira e molla, litigando e poi riappacificandosi a seconda delle volte. Scorsese vuole anche farci mettere in dubbio il modo in cui consideriamo questi mafiosi spericolati, questi tipi tosti che non si fanno mettere i piedi in testa, e cosa succede loro dopo che gli spari e il divertimento sono finiti. The Irishman è, per molti versi, un anti-Quei bravi ragazzi: una prolungata scarica di adrenalina che ti chiede di passare tre ore e mezza a contemplare le conseguenze di una vita di attività criminali, compromessi morali e leggi mafiose. Non è solo una delle opere principali di Scorsese, potrebbe essere il film gangster più sentito di tutti i tempi.

Prima di tutto però impariamo a conoscere Frank. Interpretato da De Niro con le sue solite scrollate di spalle ben calibrate, le esitazioni verbali e la volatilità da vulcano in eruzione, Sheeran è un veterano della Seconda Guerra Mondiale, un camionista che viene beccato mentre alleggerisce il suo carico di quarti di manzo per entrare nelle grazie di gente del sindacato di Filadelfia. Incontra per la prima volta il suo santo patrono mafioso, Russell Bufalino (Joe Pesci), in una stazione di servizio quando il suo camion viene fermato dai poliziotti. Alla fine, Bufalino e il cugino/avvocato Bill (Ray Romano) introducono Sheeran in un mondo fatto di uomini senza scrupoli, professionisti legati ai mafiosi e assassini a pagamento. (Molte di queste figure reali sono introdotte tramite un testo sullo schermo che identifica chi sono, con tanto di data e modalità delle loro morti spesso premature: una mossa brillantemente fatalistica).

Sono proprio Bufalino e il cugino a organizzare l’incontro tra Sheeran e James Riddle Hoffa (Al Pacino). Il mega boss della Fratellanza Internazionale dei Camionisti prende immediatamente in simpatia Sheeran, soprattutto dopo che un lavoro improvvisato a Chicago manda un messaggio in modo rapido ed efficiente. I due diventano praticamente inseparabili e resistono insieme agli attacchi dell’allora procuratore generale Robert Kennedy, ai problemi interni al sindacato e alle tensioni con la criminalità organizzata, alle pene detentive e ai colpi inferti da “the little guy”, alias il gangster del New Jersey Anthony Provenzano, a.k.a. Tony Pro (Stephen Graham, che ci ricorda che nessun attore in attività canalizza meglio l’energia pronta a scattare di Cagney). Più Hoffa cerca di riprendere il potere sul delegato della mafia che è diventato il nuovo presidente della Fratellanza, più Bufalino e gli altri capifamiglia iniziano a perdere la pazienza con il volubile personaggio pubblico. Qualcosa deve cambiare. E qualcosa alla fine cambia.

È stato sollevato un gran casino sulla decisione di Scorsese di usare gli effetti digitali per alterare l’aspetto dei suoi protagonisti, con l’obiettivo di tracciare meglio l’arco narrativo lungo e complicato dei personaggi, da pezzi piccoli poco più che ventenni a boss sulla trentina, fino a fragili ottuagenari pronti a liberarsi dalle loro spoglie mortali. Sì, a volte distrae e purtroppo aliena un po’ – per quei primi anni il ringiovanimento di De Niro in certe scene assomiglia a una protesi facciale di plastica – ma non è un ostacolo insormontabile. Alla fine ti abitui allo strano effetto di vedere apparire lui Pacino e Pesci quasi fossero usciti da macchine del tempo. Per fortuna, il contorno non influisce sulle prestazioni: Pesci ricorda perché ci è mancato tanto sullo schermo, e questa performance è senza dubbio il lavoro più forte di Pacino da molti anni a questa parte. Anche nei suoi momenti più chiassosi è un tutt’uno con quella testa calda di Hoffa. C’è una sequenza che coinvolge lui, Graham, un incontro e la mancanza di puntualità che sembra nello stesso tempo una parodia dei film di mafia e uno degli esempi più riusciti del genere. Tutti gli interpreti principali, così come gli attori secondari (tra i quali Ray Romano, Harvey Keitel, Bobby Cannavale, Kathrine Narducci, Domenick Lombardozzi e Welker White), comprendono i ritmi della sceneggiatura di Steve Zaillian e la direzione di Scorsese fino a l’ultimo “levatevi dalle scatole”.

Non sorprende che il pilastro sia De Niro, l’attore associato più spesso agli uomini complicati e pericolosi dei film di Scorsese. (Durante la premiere, il regista ha scherzato ricordando a tutti che l’ultimo film che ha proiettato al NYFF era Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno: “46 anni fa, nella stessa stanza – e con lo stesso cast”). Come prevedibile da una collaborazione come questa, l’attore regala molti dei marchi di fabbrica tipici del suo modo di recitare, il che rende l’ultimo atto del film ancora più sconvolgente. Se Scorsese avesse chiuso The Irishman prima che l’orologio superasse le tre ore, il pubblico sarebbe uscito dalla sala parlando dell’ultimo esercizio di stile del duo. Il regista, invece, lascia che la storia continui oltre il suo climax naturale, raccontando quello che succede dopo le scene più adrenaliniche. Tutto rallenta. I personaggi invecchiano. Alcuni conflitti non trovano soluzione, o addirittura una conclusione. Abbiamo visto il dolore fisico dispensato da questi uomini; Scorsese insiste per renderci testimone del loro dolore nell’inverno della vita.

È la parte del mito mafioso che normalmente non si vede nei film, soprattutto in quelli di Scorsese – gangster senza tragedie. Lo sceneggiatore e complice cinematografico Nicholas Pileggi ha suggerito che questo sia il capitolo finale di una quadrilogia: Mean Streets raccontava le folli gang punk da strada, Quei bravi ragazzi seguiva gli adulti e Casino entrava nei dettagli del capitalismo mafioso. The Irishman, invece, cala il sipario su questi personaggi, ed è come se il film ci obbligasse a tornare indietro e riguardare gli altri sotto una luce diversa, una trasformazione inevitabile per chi scopre come finiranno tutte quelle storie. Quei bravi ragazzi si chiudeva con una scena memorabile, un uomo e una pistola, un richiamo alla prima scena di violenza mai portata al cinema. Non è spoiler dire che The Irishman ci lascia con un ritratto dell’assenza: un uomo, una stanza, il vuoto e il silenzio. Questo è un crime movie divertente, furioso ed epico. Ma è anche genuinamente spirituale e, diavolo, se fa la differenza.

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