Nino Migliori, il fotografo che ha rivelato l’Italia | Rolling Stone Italia
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Nino Migliori, il fotografo che ha rivelato l’Italia

‘Nino Migliori. Viaggio intorno alla mia stanza’ di Elisabetta Sgarbi è un’indagine sull’artista classe 1926 il cui occhio ha innovato per sempre l’arte della fotografia nostrana

Nino Migliori, il fotografo che ha rivelato l’Italia

Un’immagine di ‘Nino Migliori. Viaggio intorno alla mia stanza’ di Elisabetta Sgarbi

Il lemma è “visionario”. Si adatta in automatico a gran parte degli artisti. La definizione di Nino Migliori, classe 1926, sarebbe “fotografo”, ma è altamente riduttiva. Migliori ha esplorato, mettendoci le mani e sporcandosele, tutta la materia preparatoria che poi diventava fotografia. “Materia” significa pittura, immagine, elementi di arte povera, insomma tutto ciò che hai vicino e puoi toccare, e trasformare se hai quella vocazione, privilegiando l’informale che lascia grande spazio alla creatività. Vedendo il film Nino Migliori. Viaggio intorno alla mia stanza di Elisabetta Sgarbi, presentato all’ultima Festa del Cinema di Roma, devi subito affrontare l’artista che ti guarda fisso negli occhi e racconta, racconta.

I suoi inizi, la sua compagna e musa Marina – “Senza di lei sarei morto da un pezzo” – e i suoi amici. Che non era gente banale. a proposito di visionario e informale. Si chiamavano Vedova, Tancredi, Morandi, artisti che hanno lasciato segnali potenti ed eredità ancora spendibili nell’arte del Novecento. Vivevano tutti secondo moda e bohème, magari a Parigi. Lavoravano e inventavano e si divertivano, e nessuno era astemio. E Nino fotografava. Ed è impressionante, magari “metafisico”, pensare che quelli non ci sono più da tanto tempo mentre Nino c’è ancora, ancorato qui, nella sua stanza di Bologna, testimone di un secolo e oltre.

E irruppe la travolgente Peggy Guggenheim, febbrile, geniale e affascinante. Si portava in giro il Nino e si faceva fotografare. E lui ricorda ancora la gioia della collezionista mecenate innamorata dell’arte e degli artisti, quando riuscì ad acquisire per la sua collezione un Pollock. La materia. Nello spazio di quell’atelier c’è tutto ciò che può diventare pretesto di lavoro, applicazione e trasformazione. Un fiammifero spostato sotto un volto ne altera l’espressione, una bottiglietta di acqua minerale diventa tutt’altro, un caleidoscopio moltiplica la forma che diventa un labirinto inestricabile, un oggetto neutro lì per terra può essere un’installazione. E poi, le fotografie. Ultimo approdo. Alcune fanno parte della memoria di quella disciplina. Come il tuffatore, che l’obiettivo è riuscito a riprendere nel momento perfetto in cui è parallelo all’orizzonte del mare. E poi quel vigile solitario, in quell’incrocio, dove dirige… nessuno. E i due musicisti nella grande via, che suonano a… nessuno. E tanta, tanta altra roba.

Raccontare tutta quella materia, storia e vita non era semplice. Con una complicazione in più: Elisabetta Sgarbi non scherza in fatto di visionario. E quando si incontrano due così può essere un disastro o una magia. La regista è riuscita a mettere a posto la chimica e riprendendo i registri di Extraliscio – Punk da balera, dove aveva inventato un musical etnico, ha fatto della vita di un artista eterno una chanson de geste di quarantun minuti. Mai convenzionale, mai prevedibile, ha gestito una sostanza statica, quasi sempre nella penombra, con artifici stilistici opportuni. Ogni sequenza è introdotta da un diaframma che si apre per poi chiudersi per un successivo passaggio.

Partecipando al montaggio, Sgarbi ha potuto unire in un filo nascosto i cambi di registro e di estetica, e stimolare l’occhio dello spettatore. E ci sono momenti nel racconto di Migliori e nella visione di quel momento della regista che sono parti di poesia integrata. Va citata la musica di Mirco Mariani, a sua volta “informale” e costante. Anche se in certi istanti, intensi e completi, forse ci sarebbe voluto il silenzio. Nino Migliori conclude. “Non credo in Dio, nel futuro, nell’aldilà, nell’altra vita. Con la morte tutto finisce”. Ci può stare. Per chi ha raccontato il mondo, un altro protagonista del mondo, il fondatore addirittura è… superfluo. Il mondo si è autoprodotto senza fondatori, solo per lui, l’artista, il demiurgo. (**** sul Farinotti)