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‘Mulan’ è l’ennesimo live action dove la magia non è più vera

È un piano quinquennale di conquista dell’universo quello della Disney, che si unisce all’ossessione del “realismo”. E anche se il film di Niki Caro ci prova a non essere una fotocopia del cartoon, non è abbastanza

Foto: Jasin Boland/Disney

Questa volta la magia è vera! Ricordate? Era il sottotitolo italiano appiccicato alla versione live action della Carica dei 101, un’anomalia nel 1996 in cui è uscito, facendo irreparabili sfracelli al box office, solo due anni dopo un tremendo Mowgli in carne e ossa troppo brutto per esser preso sul serio. Un’anomalia, perché negli anni ’90 i remake live action di Classici Disney, fortunatamente, non erano ancora una realtà ineludibile, una strategia di marketing inarrestabile, un piano quinquennale di conquista del box office (e dell’universo): la tecnica impiegata dalla Casa di Topolino per raschiare il fondo delle nostre tasche di spettatori era, allora, quella dei sequel straight to video, animati in fretta e furia da unità secondarie per raccontarci il ritorno di Jafar, o il viaggio in Europa di Pocahontas, o il Natale di Belle, estendendo nel frattempo il più possibile l’esistenza commerciale dei personaggi, in una qualità via via inferiore.

Ma “questa volta la magia è vera!” è diventato il mantra promozionale dacché rifare i Classici dal vero si è rivelata una delle più efficaci tattiche di conquista dei Walt Disney Studios. Con un ulteriore salto logico, che sembra immediato, ma in realtà non lo è: quello da “vero” a “realistico”. Anche per Mulan, l’ultimo – e distributivamente sfortunato: era uno dei blockbuster più attesi dell’anno, è approdato direttamente su Disney+ a 21,99 euro – film del mucchio, si è sprecato l’aggettivo “realistico”: non ci sono le canzoni! Non c’è il draghetto Mushu! Non ci sono le battute né i momenti slapstick! Ci ispiriamo direttamente all’antica Ballata cinese più che al cartoon del 1998! Guardate che questo è un “film serio”, “questa volta la magia è vera!”. Solo che poi no: il Mulan di Niki Caro guarda direttamente ai wuxia – quelli di Zhang Yimou (Hero, La foresta dei pugnali volanti) e La tigre e il dragone, a loro volta, versioni già “bonificate” e “occidentalizzate” del genere – che tutto sono fuorché “realistici”. Sono racconti avventurosi di cavalieri erranti, una tipologia particolare di “cappa & spada”, ambientati in un passato mitico, caratterizzati da splendide scene d’azione che in nome dello spettacolo e dell’eroismo dei protagonisti beffano tutte le leggi della fisica, con coreografie di combattimento intricate e l’ausilio di cavi, spesso anche visibili. Ed è esattamente per questo – oltre che per i sontuosi costumi, gli scenografici paesaggi naturali e lo sconfinato sense of wonder – che sono bellissimi.

E invece no, invece noi, oggi, dobbiamo tenerci l’ossessione del “realismo” live action. Che raggiunge iperbolici paradossi: l’anno scorso Il re leone di Jon Favreau (uno dei maggiori incassi di sempre, per inciso) ci è stato presentato come Classico in live action, ma era a tutti gli effetti un altro film di animazione, però fotorealistica (per ammissione dello stesso regista c’è una sola immagine filmata dal vero, messa apposta per dimostrarci che non avremmo colto la differenza). L’Aladdin di Guy Ritchie, col suo Genio/Will Smith dipinto di blu, doveva dar fondo a svariate riserve di computer grafica per animare le sue scene più spettacolari, come la riproposizione del numero musical Un amico come me. E il Dumbo di Tim Burton… beh, probabile che per girarlo abbiano dovuto utilizzare tutti i green screen di Hollywood messi insieme. Non affrontiamo neppure il discorso Lilli e il vagabondo di Disney+, che ai tempi dei primi annunci di lavorazione, ci dicevano, sarebbe stato filmato “con cani veri”: sì, come no.

Il fatto è questo: nel 2010 Tim Burton ha fatto Alice in Wonderland, e Alice in Wonderland ha fatto una montagna di quattrini tale che per contenerli son serviti svariati depositi di zio Paperone. Non era propriamente un remake del Classico animato, quanto la versione “di Tim Burton” degli scritti di Lewis Carroll, ma nei Disney Store sono arrivati giocattoli e gadget ispirati anche al film del 1951 e ulteriori quattrini hanno iniziato a fluire nelle casse degli eredi di zio Walt. Poi ci sono stati Maleficent, la Cenerentola di Kenneth Branagh, e soprattutto Il libro della giungla di Jon Favreau – anche questo in animazione fotorealistica, ma con almeno Mowgli in carne e ossa –, che nel 2016 è stato il quinto incasso dell’anno (in USA e nel mondo). Diventa chiaro che il remake live action è una formula infallibile, ed economicamente super redditizia: ogni film “dal vero” costa – milione di dollari più, milione di dollari meno – quanto uno d’animazione, ma per farlo ci vuole un quinto del tempo, e anche un quinto del lavoro. Il design dei personaggi, le idee scenografiche, lo stile, le canzoni, perfino le sceneggiature (con qualche aggiustamento) sono tutte lì, già pronte, da riutilizzare (eventualmente si può setacciare l’archivio Disney per ripescare materiale scartato all’epoca). E i film hanno già schiere adoranti di fan, prima ancora di sbarcare in sala, pronti ad avventarsi anche sul merchandise: sono gli ex bambini cresciuti che non vedono l’ora di rivedere, in una nuova veste, i film che hanno amato nell’infanzia, naturalmente portandosi dietro, a loro volta, i propri figli, pronti a diventare spettatori-consumatori altrettanto fedeli. È l’affare perfetto.

Nessuno dovrebbe essere tanto ingenuo da pensare che il cinema – il cinema dei grossi studios, soprattutto – non sia, prima di ogni altra cosa, un fatto commerciale. Ma i remake live action Disney rischiano di rivelarlo in modo così spudorato che bisogna correre ai ripari, ed ecco che arriva lui, il “realismo”. Sentite, io sulla carta capisco l’appeal, lo capisco davvero: è il motivo per cui hanno successo quei bellissimi disegni di illustratori e illustratrici che si immaginano “come sarebbero le principesse Disney nella realtà”, oppure “se vivessero oggi, nel nostro mondo”. È un trucco, un gioco di prestigio, un effetto wow: il più delle volte è effimero, ma per quel poco che dura, funziona.

Quel che alla sottoscritta risulta intollerabile è l’idea che il “realismo” sia un “potenziamento”, un “aggiornamento”, addirittura (aiuto!) un “miglioramento”. Perché è così che, più o meno subliminalmente, vengono presentati questi film. Anche a livello di contenuto, dove gli aggiustamenti sembrano messi apposta per rispondere a tutti quegli elenchi di incongruenze o presunti “errori” dei film Disney stilati negli anni online, tra una lista di BuzzFeed e un video di CinemaSins su YouTube. Oppure provano a “correggere” aspetti che oggi sono diventati problematici o inaccettabili: ed ecco che nel finale del nuovo Dumbo (spoiler!) gli animali del circo vengono liberati nella giungla (a inizio Novecento? Mmm, proprio realistico!); ecco che alla Jasmine del nuovo Aladdin viene appioppata una nuova canzone simil-Let It Go per farci capire che sì, è una principessa, ma è anche una ragazza tosta che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno (come se la Jasmine originale fosse speechless); ecco che la nuova Belle non è solo un’appassionata lettrice, ma un’inventrice (ma guai a utilizzare davvero questa sua nuova abilità nel film!); ed ecco che, nel nuovo Mulan, scompare, oltre allo spiritello drago Mushu, anche la figura del comandante Li Shang perché in tempi di #MeToo, ci spiegano gli executive Disney, non è appropriato che la protagonista abbia una storia d’amore con un suo superiore (e poco importa che nell’originale non ci sia alcuna violenza, forzatura o abuso di potere: d’altra parte è molto più semplice eliminare del tutto qualcosa che doverne affrontare le sfumature e le complessità. Se poi qualcuno si lamenta, basta dare la colpa alle femministe o alla “dittatura del politicamente corretto”: si sa che rovinano sempre tutto, questi guastafeste).

Ma è soprattutto a livello estetico, di stile, di tecnica, che il “realismo” di un adattamento live action non può competere con la meraviglia dei cartoon. Alla base c’è sicuramente il fraintendimento secondo cui l’animazione sarebbe una variante minore del cinema (quando, pensate un po’, è nata pure prima del cinematografo dei fratelli Lumiere), una cosa solo per bambini, futile, infantile, poco seria. La realtà è che è proprio l’animazione, nei casi dei Classici Disney e non solo, a riuscire a rendere la magia vera: con le possibilità di un’immaginazione sconfinata, con la malleabilità concessa dai disegni alle movenze dei personaggi, alle inquadrature, ai movimenti di macchina. È l’animazione a dare un’anima (perdonate il pessimo gioco di parole) agli oggetti, e a rendere strabordanti e trascinanti i numeri musicali, ad accendere d’emozione l’avventura. È l’animazione a concedere alla fantasia di essere davvero infinita.

Mulan, diretto dalla neozelandese Niki Caro, qualche cosa giusta la fa. Per esempio, ci prova davvero, a essere un remake, e non una pigra fotocopia. Ma le sue pretese di realismo si scontrano quasi sempre (ah ah) con la realtà: è pur sempre un’avventura Disney per ragazzi, non un film storico di guerra. Si vedono tutti i fili: non quelli tesi dal wuxia per far volare gli attori durante i fantastici combattimenti (magari!), ma quelli del solito film Frankenstein che deve legare insieme mille esigenze diverse, gli omaggi all’originale per non scontentare troppo i vecchi spettatori, l’aggiornamento “femminista” che rende la protagonista un’imbattibile predestinata (l’originale che vedeva Mulan, inizialmente goffa e sgraziata, trasformarsi sotto i nostri occhi in una guerriera era in realtà molto più femminista, ma nessuno pare essersene accorto), le necessità del marketing, la riverenza verso il regime cinese, perché è soprattutto in Cina che oggi si fanno i soldi con i film.

Ecco, forse in questa coincidenza di propagande, Mulan finisce per rivelare inavvertitamente qualche verità: proprio come questa nuova versione della protagonista, simbolo del cittadino ideale, “leale, coraggiosa e sincera” com’è scritto sulla sua spada, anche noi spettatori dovremmo accontentarci della nostra lealtà di consumatori Disney, mentre Disney, nel frattempo, ingloba pezzi su pezzi dell’intrattenimento mondiale. Leali al brand, alla nostalgia per i vecchi classici rivisitati, alle decalcomanie dei remake live action, al merchandise dei Disney Store, alle esperienze immersive dei parchi. Senza pretendere nuove magie, o la fantasia al potere, o – non sia mai! – una contestazione allo status quo dell’impero.

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