C’è un momento in Martin Scorsese Directs, l’episodio del 1990 di American Masters dedicato al regista trasmesso sulla PBS in concomitanza con l’uscita di Quei bravi ragazzi, in cui un gruppo di commentatori si dilunga in elogi poetici sulla conoscenza enciclopedica del cinema del loro amico e collega. Dopo testimonianze sulla sua incredibile capacità di ricordare singole inquadrature, filmografie complete, chiunque abbia diretto un oscuro film di fantascienza di serie B – lui ricorda sempre il nome del regista – qualcuno fuori campo afferma che è un tema ricorrente quando si parla di Marty. Scorsese si irrita visibilmente prima di rispondere: “Sì, certo, ne so un sacco di storia del cinema. E allora? Non ho forse opinioni sulla vita, la morte, l’amore, l’odio, il peccato, la salvezza? Se sono semplicemente uno che sa sputare fatti e cifre sui film e non ha niente da dire al mondo che lo circonda, chi cazzo se ne frega?!”.
Rebecca Miller, che è sua volta una straordinaria narratrice, si è senza dubbio imbattuta in questa clip mentre stava costruendo Mr. Scorsese, la docuserie in cinque parti (presentata in anteprima al New York Film Festival e disponibile su Apple TV+ dal 17 ottobre) sul cinefilo e cineasta esuberante che ci ha regalato Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno, Taxi Driver, Toro scatenato, Quei bravi ragazzi, L’età dell’innocenza, The Departed – Il bene e il male, The Wolf of Wall Street e The Irishman, per citare solo alcuni dei suoi capolavori. Ma, soprattutto, sembra aver preso a cuore il messaggio. Divisa in cinque capitoli distinti e che coprono tutto, dagli anni formativi di Scorsese nelle pericolose strade del centro di Manhattan alla preparazione di Killers of the Flower Moon del 2023, questa maratona di approfondimenti su un vero maestro americano ha la sua dose di momenti salienti da best-in-show. Volete un confronto diretto di inquadrature iconiche che abbracciano epoche diverse, la maggior parte delle quali con la colonna sonora dei Rolling Stones (chi altri)? Una litania di citabilissimi momenti da duro e di ferocia di seconda mano che si scontrano con la spiritualità e l’iconografia cattolica? “Stai parlando con me? Stai parlando con ME?!”: ecco fatto.
Ma non perde mai di vista l’uomo dietro la macchina da presa, prestando grande attenzione al bello, al brutto e al cattivo della sua vita, lasciandogli al contempo ampio spazio per riflettere su tutto. E questo, più di ogni altra cosa, è ciò che rende questo sguardo su Scorsese esaltante, necessario, prezioso e infinitamente bello da guardare come l’opera di Scorsese stesso. È, senza ombra di dubbio, lo sguardo definitivo sul più grande regista vivente.
Se esiste un equivalente di Rosabella (la parola chiave di Quarto potere di Orson Welles, in originale “Rosebud”, ndt) per il soggetto dell’esaustiva immersione di Miller nella vita di Scorsese, il documentario lo identifica come un incidente accaduto a Corona, nel Queens, dove il giovane Marty viveva con il fratello maggiore e i genitori da bambino. Il quartiere era come un Eden periferico per questo ragazzo di città, pieno di italoamericani e un’atmosfera da classe medio-bassa in ascesa. Finché suo padre Charles, un operaio del distretto tessile, non si è trovato coinvolto in una rissa di strada con il proprietario dell’appartamento. Nessuno sa esattamente per cosa sia finita la rissa. “Ricordo che qualcuno ha tirato fuori un’ascia” è il massimo che Scorsese riesce a fornire in termini di dettagli specifici. Ma il ragazzo ha assistito a tutto questo scomodo mix di famiglia, violenza, tribalismo e un’atmosfera che può cambiare e caricarsi in un attimo. I due contendenti hanno risolto la questione prima che ci fossero delle vittime, ma il risultato è stato che gli Scorsese hanno dovuto andarsene: “Siamo stati cacciati dal paradiso”, dice Scorsese con rammarico. Alla fine furono rispediti “nei quartieri popolari”, aggiunge, e si stabilirono in un appartamento in Elizabeth Street a Little Italy. Il resto è storia.
Ascoltare Scorsese parlare di questo momento all’inizio, seguito poi da una serie di sequenze tratte dai suoi film in cui i bambini assistono a orribili atti di aggressione (in particolare in Toro scatenato e The Irishman), è il tipo di gioco di parole che Miller inserirà con grazia a tonnellate nelle successive cinque ore. I momenti salienti della sua storia passata, ben noti anche ai fan più occasionali, sono presenti per intero, diligentemente ripercorsi come le stazioni della Via Crucis: dalla LES alla New York University, l’apprendistato da Corman, gli alti (e i bassi) letterali degli anni della cocaina, il ritorno dall’orlo della morte, l’incoronazione a “uomo dei film sulla mafia”, l’evoluzione da giovane arrabbiato a uomo di mezza età ancora molto arrabbiato a venerato statista del cinema. Collaboratori come Thelma Schoonmaker, Robbie Robertson e Leonardo DiCaprio hanno profili secondari all’interno del quadro generale. Miller conclude il primo capitolo con Jay Cocks, amico di lunga data di Marty, che gli dice che c’è qualcuno che dovrebbe incontrare all’inizio degli anni ’70, e si passa al Robert De Niro dei giorni nostri, che annuisce con il suo caratteristico “ho sentito qualcosa” e sorride sommessamente.
È tutto quello che ci si aspetterebbe da un documentario che racconta una carriera vasta e versatile, riconosciuta come un autentico traguardo nelle arti e nelle scienze cinematografiche, anche se l’Accademia che premia tali meriti si è presa tutto il tempo necessario per conferire un riconoscimento al nostro. Ma Miller continua a intrecciare questo viaggio nel passato con approfondimenti non solo sui film, ma anche su chi è, da dove viene, dove è andato e come è caduto ed è sopravvissuto. Viene esaminato ogni suo matrimonio, con le diverse figlie di Scorsese che testimoniano come le sue ambizioni e assenze non lo abbiano sempre reso il padre ideale. Ci sono abbondanti aneddoti sui suoi capricci. E filmati amatoriali tratti dalla giovinezza del regista si mescolano a scene di vita da immigrato siciliano della metà del XX secolo, mentre Scorsese offre un contesto per una cultura della diaspora con le sue regole, tradizioni e modi di prendersi cura dei propri cari. Non è sempre bello da vedere.

Scorsese nel periodo di ‘The Last Waltz’, il doc sull’ultimo concerto di ‘The Band’. Foto: Apple TV+
La serie si addentra nel mondo nebuloso e “tossico” degli anni Settanta, quando Scorsese bilanciava uno stile di vita stacanovista con una discesa nell’oscurità dopo l’orario di lavoro, e i cambiamenti nell’industria cinematografica che lo resero un attimo prima un golden boy, un attimo dopo un outsider e un paria. La maggior parte delle vite americane, se fortunate, ha un secondo atto. Scorsese sembra averne registrati ben 22. Miller non si limita a intervistare i famosi e i potenti. Parla approfonditamente con gli amici con cui Scorsese si intratteneva prima di diventare “Martin Scorsese”, poi riesuma il tizio che ha ispirato Johnny Boy (!) in Mean Streets.
Tutto ciò che riguarda la realizzazione dei film, grandi e piccoli, i successi e i cosiddetti fallimenti, ha molti approfondimenti, oltre a migliaia di film che lo hanno influenzato e continuano a influenzarlo. Il cinema è sempre stato un’ossessione al limite della patologia per Scorsese, e Miller si assicura che il suo amore sfacciato per la Settima Arte sia bilanciato dal suo lavoro di artista. I film erano per lui una via di fuga, ma erano anche una finestra sul mondo in senso più ampio, un riflesso del mondo che conosceva e, in definitiva, un mezzo per esprimersi. (L’analogia con la finestra non è solo metaforica, tra l’altro; il soggetto del documentario collega direttamente tutte quelle prospettive dall’alto e le ampie inquadrature con la gru nei suoi film a una giovinezza trascorsa a spiare la vita di strada sotto la sua camera da letto al secondo piano.)
Quest’ultimo aspetto è in definitiva quello che distingue Mr. Scorsese dagli altri ammirevoli documentari-ritratto realizzati su questo veterano del cinema: l’enfasi sul chi e sul perché dietro quelle espressioni creative, tanto quanto sul quando, sul dove e sul come. Questo e la durata, ovviamente, ma Miller giustifica il minutaggio con un’espansività, una pazienza, una curiosità e una mancanza di giudizio che davvero contraddistinguono quest’opera. Non è un’agiografia, né qualcosa creato per impressionare. Il soggetto non è qualcuno definito da binari, così come non è un autore da jukebox che usa con entusiasmo le sue immagini per sfoggiare le sue versioni di librerie di DVD e liste dei preferiti di Letterboxd. Martin Scorsese è un artista che ha sempre avuto qualcosa da dire sul mondo che vede intorno a noi. E Mr. Scorsese ci permette di entrare in una conversazione con lui sull’argomento per cinque ore. L’unica cosa negativa in questa impresa è che non dura il doppio.












