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‘Mostruosamente Villaggio’, mostruosamente noi

Il documentario in onda il 22 marzo su Rai 3 racconta del (malin)comico i successi e le ossessioni, la comicità e il buio. E, ovviamente, dice molto anche di noi, eterni Fantozzi che sappiamo ridere solo degli altri, senza capire che ad essere presi per il cu*o siamo noi per primi

Foto: Edoardo Fornaciari/Getty Images

Il giorno dopo che ho visto Mostruosamente Villaggio ho preso un treno per Roma, e accanto a me c’era uno youtuber (s’era definito lui così durante una prima telefonata) che stava andando al Quirinale (l’ho scoperto dalla seconda – terza? – telefonata) per «un incontro di Mattarella coi creator: pranziamo e poi arriva lui, ognuno si è preparato un articolo della Costituzione», e mentre pensavo povero Sergio, povera patria, mi dicevo pure che era tutto molto fantozziano, questo nuovo travet dell’epoca digitale che s’era messo la giacca buona per andare dal Presidente. Fine del mio aneddoto à la Alain Elkann, era solo per dire che Fantozzi non finisce mai, e con lui Villaggio, e la nostra disperazione, la nostra continua ricerca di un posto nella società più gretta, meschina, miserabile di tutte, dal dopoguerra a oggi.

Probabilmente la frase più bella di Mostruosamente Villaggio – regia di Valeria Parisi, prodotto da 3D e Rai Documentari, l’hanno scritto Paola Jacobbi, Fabrizio Corallo ed Elisabetta Villaggio, figlia di Paolo, e va in prima serata su Rai 3 venerdì 22 marzo – la dice all’inizio del film Diego Abatantuono: «Non so se sono io o se è cambiato il mondo, ma noi ridevamo dalle otto alle dieci ore al giorno». È vero che di questi tempi non ride più nessuno, nemmeno lo youtuber che – poi sono andato a cercarlo – nei suoi video dice cose teoricamente spassosissime col tono di chi conosce tutto della vita, e ha imparato a goderne.

L’altra frase più bella di Mostruosamente Villaggio la dice Emanuele Salce, figlio di Luciano, cioè il regista dei primi due Fantozzi. È una cosa che hanno detto più o meno tutti, ma che lui ribadisce, ribaltandola, ancora meglio: «La forza di Fantozzi è stata sempre quella di farci credere che stavamo ridendo del nostro vicino di casa, ma in quel momento il nostro vicino di casa stava ridendo di noi».

Di Villaggio è difficile ridere, ne abbiamo conosciuto il buio che anche questo film (narrato, per così dire, da Luca Bizzarri, altro genovese d’ironie e malinconie) racconta bene. Ne ritira fuori tutte le depressioni, e tutte le ossessioni: il cibo, il successo, l’ansia, la morte. Il pensiero di morte è costante in Villaggio, e in Fantozzi, dunque in noi che guardiamo il mostro, smostrandoci di par nostro.

Eppure Villaggio continua a farci ridere, perché del vicino di casa (o di posto in treno) non smetteremo di ridere mai, anche se il vicino siamo noi. Ci fa ridere anche nei momenti per cui oggi sarebbe accusato di ogni “ismo” possibile: quando dà del lei al nipote (adesso direbbero che il ragazzino ne uscirebbe traumatizzato, che bisogna mandarlo tosto dallo psicologo); quando si fa intervistare da Serena Dandini praticamente nudo, appena uscito dalla doccia (provate a immaginare un’intervista così oggi); quando dice “è la noia, la noia della televisione”, la cumbia della noia di un uomo che dalla televisione era stato preso e (re)inventato; quando sospira, accanto alla moglie intervistata con lui da Fabrizio Frizzi, “quando vedo che nella coltelliera manca un coltello esco e vado al grand hotel”, perché vuol dire che la signora è incazzata (e anche qui: immaginate cosa succederebbe oggi). Fa anche ridere (e piangere) sentir parlare in generale quell’uomo di sterminata cultura che cita i russi e poi paragonarlo ai comici (youtuber?) di oggi – tutti tranne Checco Zalone, che difatti ora fa un disco con De Gregori.

Mostruosamente Villaggio riscopre – o cerca di far scoprire al pubblico che ormai giusto Fantozzi conosce, o forse pure quello ormai è troppo alto, troppo impegnativo – meraviglie sepolte, come certi film (Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno, la prima collaborazione con Salce un anno prima di Fantozzi), e certi accadimenti del nostro costume (tutti sappiamo cos’è stato e cos’è ancora oggi Fantozzi, nessuno ricorda che è stato al cinema otto mesi, altro che Barbenheimer), sempre con quel tono divulgativo che solo la Rai sa (benissimo) prendere, e senza bisogno di infografiche Instagram.

E ci rimette sotto al naso certe storie, certe amicizie che non possono esistere più, bellissime e tristissime come solo le grandi amicizie possono essere. Alessandro Gassmann legge una lettera che il padre Vittorio mandò a Villaggio per il compleanno. “Entrambi ricchi di solitudine vera”: così Gassman padre definisce tutti e due, e già basterebbe. E invece poi scrive le parole che forse definiscono meglio in assoluto l’amico Paolo: “le fragilità del tuo coraggio”. E lì viene, mostruosamente, da piangere davvero.

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