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‘Minari’ e gli altri: sono pazzi questi coreani (e finalmente se ne sono accorti tutti)

Da Park Chan-wook a Bong Joon-ho, fino all’americanissimo (e insieme sudcoreanissimo) Lee Isaac Chung, regista della rivelazione degli Oscar 2021. Che certifica questa ‘new wave’ asiatica: imparate a mettere la K davanti a tutto

Foto: Academy Two

Se dovessi pensare a un piatto da associare agli Oscar, penserei di sicuro al kimchi, il cavolo fermentato con un sacco di peperoncino e un sacco d’aglio, che detto così non sembra ma è delizioso e pure molto democratico: si mangia rigorosamente in compagnia, pena l’ostracismo causa alito pestilenziale per almeno ventiquattr’ore. Il kimchi è l’equivalente sudcoreano dei nostri spaghetti al pomodoro, e vivaddio che ram-dom, aglio, cavolo, sedano cinese e noodles si sono impadroniti delle ultime due edizioni degli Academy Award, che altrimenti sarebbero stati un po’ scialbette.

Nel 2020 pre-pandemico fu Parasite di Bong Joon-ho: miglior film (prima opera in assoluto non in lingua inglese a riuscirci), migliore regia, migliore sceneggiatura originale e miglior film internazionale; nel 2021 forse-chissà-speriamo-post-pandemico è stato Minari di Lee Isaac Chung (dal 5 maggio su Sky e NOW), con Youn Yuh-jung – la sboccatissima, scatenatissima e irresistibile nonna Soonja – che s’è aggiudicata la statuetta come miglior attrice non protagonista. Parasite e Minari non potrebbero essere due film più diversi, anche solo per il fatto che il primo è “made in South Corea” e il secondo è invece diretto da un regista sì di origine coreana, ma 100% statunitense. Ma anche solo questo dà la misura della grandezza del cinema che, in un modo o nell’altro, trae origine dalla Corea del Sud. Un cinema che non segue regole o schemi, anzi: li infrange tutti; che è spietato, eppure elegante; lieve, eppure affilato; pungente come l’aglio del kimchi, eppure delicato come il crescione (il minari del titolo) piantato da nonna Soonja in pieno Midwest.

La mia battaglia con la noia e con l’eventualità di annoiarmi in fretta di qualsiasi cosa è, ahimè, iniziata molto presto. Mi sono finta interessata e partecipe davanti a film acclamati dalla critica e ho imparato sulla mia pelle che per stare sveglia dovevo darmi dei pizzicotti sul braccio; ho trattenuto il desiderio di lasciare a metà libri che mi sono costati infiniti sbadigli; ho applaudito fino a spellarmi le mani alla fine di spettacoli teatrali di cui manco ricordo il titolo. Ero una ragazzina, ero bionda, non volevo passare per una stupidella, abbiate pietà di me come ce l’ha la me adulta. La me adulta che oggi è troppo adulta (o vecchia, mica m’offendo) per prendere in considerazione l’ipotesi di annoiarsi, e che viene puntualmente salvata da quel manipolo di adorabili pazzi che sono i cineasti sudcoreani.

Ora te ne accorgi, si chiederà qualcuno. Ehm, no, ma non è snocciolando la filmografia di Park Chan-wook, di Kim Ki-duk, di Hong Sang-soo o di Kim Ji-woon che convincerò lo scettico di turno. Senza contare che non è manco quello il punto. Il punto è che sì, a volte c’è ancora bisogno che la cara, prevedibile Hollywood porti sul podio quel tal regista o quel tal interprete per decretare ufficialmente il valore e la qualità del “filone” a cui quel tal regista o quel tal interprete appartengono. Nel nostro caso specifico, l’hallyu, il movimento in un certo senso new wave che ha segnato la rinascita economica e culturale della Corea del Sud a cavallo dei due millenni e ha irradiato verso il resto del mondo la sua cultura, i suoi costumi e i suoi consumi.

Il Paese in passato ne aveva passate di ogni: la dominazione giapponese, conclusasi con la Seconda guerra mondiale; una guerra civile eterodiretta che continua ancora oggi; un periodo di notevole crescita economica tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta; un regime autoritario sotto Park Chung-hee; infine, un progressivo ritorno della democrazia negli anni Ottanta, che culminò appunto nell’hallyu. Dentro l’hallyu ci sono l’ossessione per il K-pop (vedi alla voce BTS), i K-drama, la K-beauty e la K-cuisine, l’ascesa della Samsung, il benessere improvviso, l’euforia collettiva, le bolle speculative, il consumismo più sfrenato e il turbocapitalismo che esaspera di desideri di almeno tre generazioni. Dentro l’hallyu c’è la Nouvelle Vague sudcoreana, la rinascita artistica di un’industria cinematografica finalmente libera di esplorare le pieghe d’una nazione spesso corrotta o inetta, parecchio bigotta, fortemente gerarchica, dove il divario sociale – tipico lascito dello sforzo economico di una potenza in ascesa – è insanabile e vede da un lato i poverissimi, dall’altro i ricchissimi.

‘Parasite’ di Bong Joon-ho. Foto: Academy Two

Cos’hanno in comune l'”esportato” Minari, Hahaha, Ferro 3, Burning, L’assassina, Parasite, Oldboy e The Host? Nulla, ed è esattamente questo ad accomunarli: la sfrontatezza, la follia, l’eclettismo dei registi sudcoreani, che non temono il confronto con generi e storie in apparenza agli antipodi (uno su tutti: Bong Joon-ho). Ogni volta che ti metti a vedere un loro film, non sai mai che succederà. Arriverà un mostro marino pronto a mangiarsi chiunque gli si troverà intorno? Un uomo assetato di vendetta taglierà i tendini d’Achille al suo antagonista e lo lascerà affogare legato come un salame? Un’anziana signora scoprirà che l’adorato nipote ha violentato per mesi una compagna di scuola, portandola al suicidio? Una famiglia di poveracci riuscirà a infiltrarsi subdolamente nell’esistenza di una famiglia di riccastri? Un’altra tenterà di far decollare un’attività agricola nel rozzissimo Midwest e di dar vita alla propria versione del Sogno Americano?

Le possibilità sono pressoché infinite, e il bello – o forse l’unico vero comun denominatore – è l’assenza di una morale consolatoria: non esiste un happy ending per come lo conosciamo, tutti al momento della resa dei conti perdono qualcosa, tutti nascondono lati un po’ spregevoli e nessuno è pienamente dalla parte del giusto o dello sbagliato. Nessuno, insomma, ricalca le nostre speranze e aspettative di pubblico abituato a venire confortato, esattamente come la nonna Soonja di Minari: «Nonna, tu non sei una vera nonna», le rinfaccia il nipotino. «Com’è una vera nonna?», domanda lei. «Cuoce i biscotti, non dice parolacce e non si mette le mutande da uomo». Sarà pure meno “nonna” agli occhi del piccolo David, ma che meraviglia ritrovarsi tra le mani un personaggio così, quanto ho riso e quanto mi sono divertita: cari cineasti coreani, date retta a me, rimanete pazzi più che potete.

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