‘Meet Me in the Bathroom’, ossia: quant’era bello quand’eravamo indie | Rolling Stone Italia
We miss the good old days

‘Meet Me in the Bathroom’, ossia: quant’era bello quand’eravamo indie

Tratto dall'omonimo libro di Lizzie Goodman, il documentario di Dylan Southern e Will Lovelace è un viaggio dolceamaro (e parziale) lungo il viale dei ricordi del garage rock revival: un'occasione in parte sprecata, ma preparate comunque i fazzoletti

‘Meet Me in the Bathroom’, ossia: quant’era bello quand’eravamo indie

Gli Strokes in una scena di 'Meet Me in the Bathroom'

Foto: Showtime

«Custodisci il tuo splendido sole silenzioso. Dammi i volti, e le strade! Dammi compagni e amanti a migliaia! Fammene conoscere di nuovi ogni giorno! Lasciameli tenere per mano ogni giorno! Dammi quegli spettacoli, dammi le strade di Manhattan! (…) Le strade di Manhattan, con i loro potenti palpiti, con i tamburi che risuonano come in questo momento. (…) La folla di Manhattan, con il suo turbolento e melodioso coro! I volti e gli occhi di Manhattan, per sempre, per me».

Comincio dalla fine, dai versi di Give Me the Splendid Silent Sun di Walt Whitman con cui si conclude Meet Me in the Bathroom, il documentario di Dylan Southern e Will Lovelace – presentato al Seeyousound International Music Film Festival di Torino – tratto dall’omonimo (e mastodontico) libro della giornalista Lizzie Goodman, purtroppo non ancora tradotto in Italia. Ripenso a quando, a vent’anni, ascoltai per la prima volta Is This It, attirata da quel verso intercettato alla radio – “In many ways they’ll miss the good old days” – che era peggio della carta moschicida. Ripenso alla sensazione che provai, la stessa che ebbi con The Queen Is Dead, Nevermind, Siamese Dream, Live Through This, Definitely Maybe, e poi più avanti con Elephant, Funeral, Aha Shake Heartbreak. Il ricordo preciso di dove fossi, di cosa stessi facendo, la certezza che quell’album l’avrei rigato, corroso, cantato fino alla nausea, che avrei idolatrato quella band al limite dell’ossessione e l’avrei seguita ovunque, accollandomi qualsiasi genere di sbattimento, costo, privazione.

Meet Me In The Bathroom | Official Trailer | Utopia

Il 2001 per me coincise con la fine di un idillio – con Londra – e l’inizio di una storia d’amore tormentatissima – con New York – culminata poi con la decisione di andarci a vivere, mossa dalla convinzione che “è lì che succedono le cose”. E le cose, certo, succedevano: il problema ero io, a trentatré anni già troppo vecchia, troppo adulta e troppo preoccupata di dimostrare a chiunque d’aver fatto la scelta giusta per lasciarmi travolgere da «compagni e amanti a migliaia». Ma questa è un’altra storia. Meet Me in the Bathroom (il film) si concentra nostalgicamente su un triennio – dalla fine del 1999 alla fine del 2002 – che in Meet Me in the Bathroom (il libro) non è che un capitolo – fondamentale, ovvio – di un periodo ben più lungo e articolato, ed è proprio questo il suo più grande limite.

Leggi: la pretesa di raccontare la (ri)nascita della scena musicale newyorchese (The Strokes, Yeah Yeah Yeahs, Moldy Peaches, Interpol, LCD Soundsystem, TV on the Radio, The Rapture) senza però fornire il contesto necessario per comprenderne la portata. E il contesto parte da un innegabile dato di fatto: la scomparsa di New York, da metà anni ’90, dai radar della coolness, soppiantata da Seattle, Londra, dalla Florida e dalla California. Andati i bei tempi del CBGB, dei Ramones, dei New York Dolls, dei Velvet Underground, dei Blondie e dei Sonic Youth, nella città che non dorme mai ciò che resta è un sindaco (Rudy Giuliani) che dal 1993 diventa fautore della politica di “tolleranza zero” per ripulire le strade di Manhattan «con i loro potenti palpiti» dal crimine che imperversava.

Karen O in una scena di ‘Meet Me in the Bathroom’. Foto: Showtime

Lo “Sceriffo” dà il via a un processo massiccio di gentrificazione, alzando i prezzi degli affitti delle zone più malfamate (NoHo, SoHo, East Village, Alphabet City, Lower East Side) con l’obiettivo di renderle sì più sicure, ma al contempo snaturandone l’anima e uccidendo la spinta vitale delle comunità che le abitavano. Intanto, il celodurismo musicale tocca il suo apice, tra nu metal, trashcore, crossover e zarri alla Fred Durst con pantaloni sotto il sedere e t-shirt oversize che invitano a «essere sempre quel pappone che vedo nelle mie fantasie». MTV non era più MTV, la parola d’ordine era mainstream, il rock pareva morto e sepolto sotto urla, arrangiamenti, effusioni con l’hip-hop, gente incazzosa più per moda che per validi (e giustificabili) motivi.

A un certo punto, però, qualcuno non ci sta: prende il sound e l’estetica del garage rock anni ’60, li mischia con la new wave e il post-punk di fine ’70 e inizio ’80, infila un completo di velluto skinny, si sincera che la vita dei pantaloni sia alta, ci infila una cintura sottile, si scompiglia i capelli lasciati crescere senza un particolare criterio e capisce che è arrivato il momento di riportare il rock alla sua essenza più autentica. Vuoi la paura del Nuovo Millennio, vuoi la strage di Columbine, vuoi l’11 settembre: gli eventi drammatici ci costringono spesso a tornare alle origini per trovare un rifugio confortante, e ciò che accade a inizio 2000 è proprio un back to basics fatto di chitarre distorte, energetici live in piccoli club, testi che si spingono ben oltre un banale «In high school, I dealt only with the classroom sluts».

Meet Me in the Bathroom (il film) lo accenna soltanto; Meet Me in the Bathroom (il libro) lo approfondisce grazie a una narrazione corale, aggiungendo un ulteriore elemento insindacabile: senza i White Stripes – che tra l’altro erano di Detroit – poco o nulla di ciò che ci aspettava sarebbe avvenuto. E l’inchino di Julian Casablancas al cospetto di Jack White, al suo ingresso durante New York City Cops nell’agosto del 2002 al Radio City Music Hall, ne è la conferma. Da Detroit a New York in un paio di riff: gli Strokes fanno da apripista con un album che in totale dura poco più di mezz’ora, hanno le facce giuste, sono stilosi, e dal Queens a Manhattan passando per Brooklyn, tutti vogliono far parte della loro scene. C’è chi in principio arranca salvo rompere le classifiche al secondo lavoro in studio (gli Interpol); chi va avanti con una sicurezza naturale che si rivelerà auto-distruttiva (Karen O e suoi Yeah Yeah Yeahs); chi ha un’intuizione musicalmente geniale e fonda un nuovo genere (James Murphy e i suoi LCD Soundsystem).

The Strokes & Jack White - New York City Cops

I cool kids migrano: dal LES attraversano il ponte e si riversano a Williamsburg, Brooklyn, dove nel 2003 – a parte qualche negozietto d’abbigliamento second hand e di dischi lungo Bedford Avenue – non c’era praticamente nulla, se non factory abbandonate in cui organizzare serate e concerti. I brand fiutano il business, e capiscono che la traversata vale una marea di soldi: American Apparel, Rough Trade, Supreme, caffetterie hipster, Urban Outfitters, New Balance, Vice man mano prendono ad affollare Berry, Metropolitan, Wythe e le vie limitrofe. I veterani sostengono che la fine di Williamsburg sia coincisa con l’apertura di uno Starbucks, ma in realtà le avvisaglie già c’erano nel 2004, anno della chiusura della Domino Sugar Refinery in vista di una maxi-riconversione; e nel 2005, quando il sindaco Michael Bloomberg vara un vasto piano di recupero dei Brooklyn Waterfront. Allora terra di nessuno, il lungofiume dell’East River non solo era un punto d’osservazione privilegiato della lontana-vicina Manhattan, ma anche un luogo non toccato dalla speculazione edilizia che ospitava mercatini, live improvvisati, festival gastronomici di quartiere, una sorta di oasi che si sviluppava in orizzontalità anziché in verticalità.

Non è un azzardo dire che l’indie rock e il suo quinquennio magico, databile dal 2002 al 2007, vennero fagocitati principalmente dall’avidità di una metropoli che è sì il posto dove “succedono le cose”, ma anche quello che le mastica e le sputa appena ha il sentore stiano diventando indigeste. Poi, come in ogni storia rock’n’roll che si rispetti, sono entrate a gamba tesa le droghe, l’alcol, i soldi, l’industria discografica capace di farti passare la voglia di sfornare nuova musica, le gelosie, le rivalità, i litigi. Meet Me in the Bathroom (il film) è un viaggio dolceamaro e parziale (raro caso in cui, al posto di un documentario, bisognava sviluppare una miniserie) lungo questo memory lane: «Appena ci siamo conosciuti abbiamo subito legato perché eravamo convinti che insieme avremmo potuto ottenere tutto ciò che desideravamo. C’era quest’innocenza all’inizio che poi è andata perdendosi, e tutti abbiamo investito tempo ed energie per riacciuffarla, per rivivere di nuovo quella sensazione: sentirci giovani».

Gli Interpol in una scena di ‘Meet Me in the Bathroom’. Foto: Showtime

Oggi, dal waterfront di Williamsburg e Greenpoint, non è più possibile vedere Manhattan: a oscurare la visuale ci sono condos extra-lusso con appartamenti dotati di ogni comfort che, probabilmente, non ci si potrebbe permettere manco con le vendite di Is This It. “Keep New York Old And Rotten” recitava una t-shirt indossata da Chloë Sevigny qualche anno fa: forse stavamo meglio quando stavamo indie, forse stavamo meglio quando era normale trovarsi una famiglia di scarafaggi sotto al letto, ma là fuori, in riva al fiume, suonavano gli Yeah Yeah Yeahs.