‘Marko Polo’, in bilico tra successo e fallimento | Rolling Stone Italia
CInema in pellegrinaggio

‘Marko Polo’, in bilico tra successo e fallimento

Elisa Fuksas racconta in prima persona il suo nuovo film «che esiste anche se non avrebbe dovuto, un vero e proprio miracolo». Quattro personaggi che si imbarcano su un traghetto per arrivare al santuario di Medjugorje. E per fare il funerale a un progetto non fatto

‘Marko Polo’, in bilico tra successo e fallimento

Elisa Fuksas in 'Marko Polo'

Foto: Fandango

Che significa avere successo? Chi lo stabilisce, come si definisce, quanto conta e come ci cambia? E il fallimento? È davvero l’opposto del successo o invece è qualcosa di diverso, indefinibile, sorprendente e necessario?

Marko Polo è un film che nasce da un fallimento, anzi è il fallimento del film che doveva chiamarsi Ama e fai quello che vuoi – come il mio romanzo uscito nel 2020. Doveva raccontare come si diventa cristiani da adulti, come è capitato a me, che mi sono battezzata a trentasette anni. Una riflessione sulla fede, come si riconosce, cosa significa, se e come cambia la vita. Poi il tempo è passato, la fase di innamoramento si è mescolata al quotidiano, attenuandosi, e le idee si sono complicate al punto da trasformarsi completamente, costringendo me e la sceneggiatrice, Elisa Casseri, a cercare altre strade che raccontassero un’altra fase, cioè quella che viene dopo, il battesimo che da fine diventa inizio.

E quindi come si resta – cristiani, innamorati, in pace – e più in generale come si resta in una scelta: non c’è niente di più difficile che decidere di fermarsi anche in un posto (fisico, mentale, reale, metafisico) anche quando questo ci piace molto. È la natura del desiderio volere quello che manca, che non è, che non c’è.

Marko Polo - Trailer Ufficiale

Abbiamo pensato, indagato, dubitato e scritto decine di copioni di ogni genere: commedia, dramma, dramma comico, documentario… fino a che la vita, gli eventi, gli ostacoli non hanno scelto la nostra forma, deformando la finzione in una verità narrata, fittizia ma necessaria e quindi ancora più vera, un’autofiction, che poi era il genere del romanzo da cui partivamo. Per questo sono nel film, protagonista ma non attrice perché il fallimento – come mancanza di possibilità – ha segnato la strada, obbligandola – e obbligandomi – a deragliare molte volte.

Di ogni copione giravo più che potevo ma tutto si esauriva in fretta, come fosse uno schizzo, e intanto studiavo per capire come potevo stare in scena in maniera sensata, quale era il tono, se potevo lavorare con gli attori, o se era più corrispondente usare persone della mia vita, senza smettere mai di cercare di capire se si poteva fare un film sulla fede senza essere retorici.

Passa altro tempo, anzi passano anni, il film continua a fallire fino a fallire per sempre, in maniera totale e perfetta, irreversibile (almeno all’apparenza) – non si trova la forma giusta, non si trovano i soldi – e proprio in quel momento, nella caduta vera, la crisi da fine diventa inizio e arriva un’idea: semplificare.

Forse le domande erano troppe, forse si può comunque raccontare una storia di fede anche senza budget. Fare un documentario (senza soldi) per non vanificare tanto lavoro, tanti anni e tante parole. È così che decidiamo di prendere la magnifica nave Marko Polo – una vera e propria chiesa galleggiante in servizio da quasi mezzo secolo – da Ancona a Spalato direzione Medjugorje per fare un pellegrinaggio. Intervistare i pellegrini, ascoltare perché e come oggi le persone credono, cercare di capire cosa spinge ognuno verso il Mistero e che rapporto si può avere con il sacro nel mondo contemporaneo.

A questo punto si possono usare le scene già girate, gli schizzi dei film non fatti, come fossero flashback. “Mi inventerò qualcosa”, dicevo ad Elisa (Casseri) fingendo controllo e a Michelangelo (Garrone), il montatore (piuttosto spaventato).

Foto: Fandango

Però, ancora una volta i piani cambiano, la Marko Polo è a terra, la sostituiranno a breve perché troppo vecchia per navigare, i pellegrini non ci sono (la crisi della fede non è una novità) e comunque non viaggiano in inverno (in quei mesi la tratta è frequentata più che altro da camionisti, trasportatori, qualche zingaro e pochissimi turisti). E quindi di nuovo la disattesa dell’aspettativa: fallire ancora una volta o inventare un’ennesima altra strada? Ci rimettiamo a scrivere una nuova storia che è poi quella di Marko Polo: quattro personaggi (la sceneggiatrice, mia sorella, l’attore protagonista del film fallito – Flavio Furno – ed io) che si imbarcano su un traghetto per arrivare al santuario di Medjugorje per fare il funerale del film non fatto.

Nella vita i riti contano e questo è un rito che si compie su una nave vuota, che diventa un luogo psichico, abitato da visioni, sentimenti, stralci di film mai fatti e preghiere esaudite. Ironia, malinconia, vita, in un viaggio che pare immobile e che però si compie con tanto di apparizione della Madonna (Iaia Forte).

Poteva essere un film sulla ricerca di Dio, ed è diventata un’indagine sul significato che diamo – e che il mondo dà – al successo e al fallimento e su quanto sia fondamentale permettersi un’alternanza tra bene e male, tra brutto e bello, tra riuscito e non. La ricerca di senso è tutto, e forse è l’unica cosa che abbiamo a disposizione quando pensiamo all’enormità di certi temi (Dio, il tempo, la morte), all’irrilevanza dell’uomo che però è così profondamente e innegabilmente significativo.

E il risultato di tanti dubbi incertezze ripensamenti ed errori non può essere un film che esiste anche se non avrebbe dovuto, un vero e proprio miracolo.

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