Il tassista che mi porta a Cinecittà vede solo horror. Anche italiani, «ma noi nun li sappiamo fa’». Dei film dei David non sa praticamente nulla. Parthenope gli hanno detto che «è bella», così al femminile. Di Berlinguer ha sentito Bianca Berlinguer che ne parlava. Vermiglio non lo conosce. «Però mi è piaciuto Conclave», dice mentre sul telefono segue la diretta dal comignolo vaticano. «E voglio vedere La città proibita: è candidato?». L’anno prossimo, forse, chissà. Poi passa, così de botto senza senso, al derby dei kebabbari romani – spoiler: vince Roma sud, chi l’avrebbe mai detto.
«Ma che c’è stasera a Cinecittà?», urlano altri due da una macchina sulla Tuscolana appena arrivo, tra un picchetto pro-Gaza e uno per i lavoratori dello spettacolo – si cammina svelti con l’aria «scusate, sono con voi, sono solo vestito figo per la serata». Bisogna fare tutto il giro perché se hai il biglietto digitale non entri dall’ingresso principale. Trovo due amici, seguiamo un tizio che sembra sicuro di quello che fa. Quando, a metà della lunga marcia, si leva la giacca, capiamo che questa serata potrebbe non iniziare né finire mai. E infatti.
Che c’è stasera a Cinecittà, dicevamo. Il punto è sempre: cosa del cinema italiano – e come – arriva a quelli che dovrebbero essere i suoi spettatori? Sempre il tassista: «Io certi film italiani li ho anche visti, ma vecchissimi. Tipo La vita è bella». (La vita è bella è del 1997. Vecchissimo.) «Quello è proprio uno dei film più belli mai fatti. Ma poi non ne ho visti più tanti».
Ci raccontiamo noi, tra di noi, che il cinema italiano ha (ancora) pubblico? Un pubblico certamente ridotto ma esistente, resistente, a volte militante perché è l’unica modalità rimasta. Non credo, ma a volte ho il sospetto che invece sì. Nel Teatro 5 di Cinecittà, ieri sera, serpeggiava la stessa sensazione che si sentiva a Venezia. Il bel Vermiglio di Maura Delpero è il film che quest’anno “è arrivato”, come direbbero nei talent musicali, più di tutti. Ha vinto i premi, ha sfiorato la candidatura agli Oscar, ha trovato il suo pubblico – 2 milioni e mezzo di euro oggi, per un film come questo, sono un tesoretto importante.
Vermiglio, che di David ne ha vinti sette, racconta una breve storia triste: Maura Delpero è la prima regista donna a vincere un David. Anche questo, al di là degli innegabili meriti del film, ha contato per dare probabilmente un’intenzione di voto, di messaggio. Ha detto che anche noi lo possiamo fare un certo cinema, in un certo modo e mondo; e che possiamo pure esportarlo – Vermiglio, questa era la sensazione a Venezia, “è arrivato”, da lì, in tutto il mondo.
E così è stato anche per Gloria! di Margherita Vicario, portentosa opera prima premiata con tre David (miglior esordio alla regia, miglior colonna sonora, miglior canzone originale), un altro film a vocazione politica e, a suo modo, globale. Vicario è solo la terza donna candidata nella categoria “miglior compositore”, e la seconda a vincere. Ricevendo il premio, sbroglia il nodo cruciale del dibbàttito nel modo più semplice: «Se facciamo del femminismo una questione statistica, più che ideologica, allora staremo tutti meglio».
Parla anche, Vicario, dell’altra sensazione che serpeggia in sala. C’è la festa (cit. Elena Sofia Ricci), sì, c’è la gioia traghettata dalla capitana Valeria Golino con il suo film-serie magnifico (tre David in totale). Ma c’è anche, dice Vicario, un sentimento comune di impotenza, di frustrazione politica. Per le cose grandi fuori dai confini e quelle piccole (che piccole non sono) dentro i confini del nostro cinema, diventato campo di battaglia. Scopriremo che Pupi Avati, 85 anni e 55 film, è il più barricadero di tutti, nel suo discorso per il David alla carriera.
La cerimonia è lunga, le file piano piano si svuotano, al bagno gli attori che potrebbero vincere un premio non vogliono che tu gli ceda il posto in fila: poi mi tocca inventarmi qualcosa di più engagé di tutto quello che hanno detto prima. Ma c’è anche la sensazione di un cinema vivo, presente, che non farà miliardi al botteghino o mille punti di share (13% per la diretta di ieri sera) ma si ritaglia il suo spazio. Forse per pochi, forse solo per noi, però eccolo, lo vediamo. Io lo vedo. Ci sono le voci dei (bei) cortometraggi finalmente premiati insieme ai “grandi”, e quelle della nuova generazione di attori – soprattutto attrici, fenomenali: Romana Maggiora Vergano, Tecla Insolia, Carlotta Gamba, tante altre – che testimoniano il cambiamento in atto.
Il caso Vermiglio mi ricorda quello di Anora. Sean Baker era in sala ieri sera per prendere il David per il miglior film internazionale, dopo aver vinto, con quello stesso film, sei Oscar. È un regista orgogliosamente indipendente (ma senza farlo pesare agli altri) che si è preso il suo spazio nel mainstream non senza meriti ma, anche lì, perché un certo cinema d’autore di larga scala non si fa più, o non racconta più una storia (qualcuno la chiamerebbe narrazione) chiara, precisa. Perché quell’altro cinema “non arriva” più, in tutti i sensi. (Per fare l’esempio più evidente da noi: ho amato follemente, come pochi ahimè, Parthenope di Sorrentino, che è rimasto significativamente senza premi.)
È l’una passata, la sala è ormai sgombra per due terzi. Prendiamo un altro taxi, ci facciamo portare al Pigneto a mangiare un cheeseburger, come nei migliori finali di notti degli Oscar, o quello che possiamo permetterci. Il tassista ci vede uscire da Cinecittà col vestito buono, io che finalmente mi slaccio il primo bottone della camicia, un’amica con i tacchi in mano, un altro col telefono con la batteria a zero. Non ci chiede niente, da dove veniamo, cosa c’era a Cinecittà. Sta parlando con un suo amico dell’Inter.