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‘L’incredibile storia dell’Isola delle Rose’ è il sogno di una libertà (e di una commedia all’italiana) possibile

Un’utopia (vera) sessantottina per raccontare ancora lo scontro tra il diritto del singolo e la legge. Sydney Sibilia non ‘smette’, ma anzi cresce. Featuring i bravissimi Elio Germano e Matilda De Angelis

Foto: Simone Florena/Netflix

Avercene. Di storie italianissime, pazzescamente anarchiche e poco conosciute come quella di Giorgio Rosa e della sua micronazione. Di autori che la nuova commedia all’italiana l’hanno saputa plasmare a propria immagine e humor e la continuano a girare a meraviglia, vedi Sydney Sibilia. Di ATTORI come Elio Germano, forse qui nella sua declinazione più libera, come Matilda De Angelis, in versione deliziosamente divertente e bolognese di ritorno, ma anche Leonardo Lidi dal teatro, e Fabrizio Bentivoglio e Luca Zingaretti modalità: passione caratteristi fuoriclasse. Avercene di produttori folli, che si lanciano in progetti matti e liberi, anche se sembrano mission impossible. Perché al cinema di impossibile non c’è niente, e alla fine hanno sempre ragione loro: Matteo Rovere e Groenlandia.

Il fatto è: li abbiamo eccome. Basta solo riconoscere la vocazione naturale all’internazionalità di un’idea, in questo caso quella dell’Incredibile storia dell’Isola delle Rose, e il gioco è fatto, Netflix è a bordo. Ted Sarandos unisce più dell’esperanto, 190 Paesi contro 120.

C’era una volta un giovane ingegnere bolognese che scatenava il caos in mezzo all’Adriatico, mettendo in piedi una piattaforma artificiale di 400 mq a 11mila km al largo delle acque di Rimini e proclamando uno Stato indipendente. O meglio: la Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose. Era il primo maggio del 1968. Tutto vero, verissimo (in realtà ci ha messo anni a realizzarla, l’arco temporale nel film è parecchio condensato, anche se il minutaggio effettivo è un po’ too much). Un’avventura sessantottina quasi inconsapevole di un nerd d’altri tempi che un film su di lui nemmeno voleva che lo facessero. Che girava con le penne sempre nel taschino anche a novant’anni e che, mentre tutti scendevano in piazza per cambiare il mondo, il suo universo personale se l’era costruito tubo dopo tubo, colata di calcestruzzo dopo colata di calcestruzzo. Obiettivo: radicare in un non-luogo un pensiero utopistico di libertà. Quel casino andava su tutti i giornali, rimbalzava tra Strasburgo, New York e Roma. Il mito di Rosa diventava un problema politico e metteva in crisi i padri della Costituzione Giovanni Leone e Franco Restivo, i buoni della Storia, trasformandoli in antagonisti: la distruzione dell’Isola delle Rose 55 giorni dopo rappresenta la prima, e unica, guerra di aggressione della Repubblica Italiana.

Sibilia non “smette”, ma rilancia quello che il fil rouge della sua poetica (lo ha sottolineato anche la sceneggiatrice Francesca Manieri): il rapporto tra libertà individuale e potere costituito. Ma se nella trilogia di Smetto quando voglio la forza stava nella banda di ricercatori universitari diventati spacciatori per necessità, qui è nel singolo, nella sua pazzissima idea che mette in crisi uno Stato, il Consiglio d’Europa, l’ONU. Semplicemente perché non ha mai mollato, per quanto assurdo potesse sembrare il suo sogno. Ché allora più lo si faceva strano e meglio era: un bell’affondo, tra leggerezza e malinconia, all’omologazione che oggi ci piace tanto. E quel mood Sixties irripetibile lo restituiscono fotografia, scenografia (la piattaforma è stata ricostruita nella Infinity Pool di Malta), costumi e colonna sonora, tra Jimi Hendrix e The Mamas & the Papas.

Foto: Simone Florena/Netflix

Se il Giorgio Rosa di Elio Germano è un “ordinario” ingegnere genialoide, un idealista senza limiti, un combattente ostinato deciso a cambiare il mondo a partire da matita e squadra, la Gabriella di Matilda De Angelis è avvocato, associato di Diritto internazionale all’Università, una figlia del suo tempo e insieme una rivoluzionaria in maniera quasi inconsapevole: è lei ad esplicitare la contrapposizione tra diritto positivo e diritto naturale al centro del film. Gabriella siamo tutti noi, chiamati a prendere una posizione quando si apre un divario tra la nostra idea di ciò che è giusto e quello che giusto secondo la legislazione. (Ogni riferimento a questi tempi di norme del Dpcm di turno da rispettare è – davvero – solo casuale.) 

«Ogni volta che la democrazia viene minacciata, il Paese reagisce subito, d’istinto»: è questa la frase di Restivo su cui Bentivoglio ha basato il suo personaggio. C’è una telefonata tra lui e Rosa che sottolinea come, dove si costituisce un potere positivo, si ponga immediatamente anche il problema della libertà collettiva, l’attrito tra la storia dell’individuo e di un popolo, soprattutto per un Paese che veniva fuori da una guerra. E c’è una scena tra Zingaretti/Leone e un cardinale in cui, in uno Stato etico che esercitava un fortissimo controllo sulla questione, un lato B femminile sulla prima pagina di un quotidiano simboleggia l’avvento del corpo femminile sulla scena pubblica.

Foto: Simone Florena/Netflix

 

Che poi nel film è incarnato da Gabriella, ma soprattutto dal personaggio di Violetta Zironi (Franca), una diciannovenne incinta e senza un compagno che troverà il suo posto nel mondo sull’Isola delle Rose, proprio come gli altri misfits (dall’apolide e disertore tedesco di Tom Wlaschiha al saldatore e primo cittadino della micronazione Alberto Astorri). E che per prima è disposta a difenderla. «Le grandi storie hanno sempre un coefficiente un po’ eterno e un coefficiente molto attuale. L’avventura di un ragazzo che sfida tutto e tutti per costruire un posto dove essere liberi è universale, questa è una grande storia», cit. Sibilia. Raccontata nel modo giusto.

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