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L’importanza di ‘Women Talking – Il diritto di scegliere’

Il film di Sarah Polley con un cast eccezionale (Claire Foy, Rooney Mara, Jessie Buckley e un cameo di Frances McDormand) è il racconto di un gruppo di donne che prende in mano la propria vita. E di un cambiamento culturale finalmente in atto

Foto: Eagle Pictures

Alcune vogliono restare e difendersi: dopotutto, quella è anche casa loro. La maggior parte vuole andare via e ricominciare da zero. E c’è anche chi non vuole fare niente, ma sono in poche: i giorni della sopportazione, del voler ignorare tutto, sono ormai lontani. Le decisioni che deve prendere il gruppo di donne protagonista di Women Talking – Il diritto di scegliere (nelle sale italiane dall’8 marzo), il film di Sarah Polley candidato all’Oscar e tratto dal romanzo Donne che parlano di Miriam Toews, si riducono a queste due opzioni: dobbiamo restare o dobbiamo fuggire?

Ciò che ha portato le donne di questa comunità mennonita a questo punto è una sorta di epidemia. Forse “peste” è un termine più corretto, visto l’incredibile danno che è stato loro arrecato. Nel corso degli anni, queste donne sono state sistematicamente drogate e stuprate nel sonno. È stato detto loro che era opera di fantasmi, se non addirittura di Satana. O forse si sono inventate tutto per avere un po’ di attenzione su di sé, come sostengono alcuni anziani del villaggio: è solo “un atto di immaginazione femminile”. Le ferite, il sangue, le infezioni e le gravidanze “mistiche” ci suggeriscono però che dietro c’è qualcos’altro. Così come il fatto che due delle più giovani abitanti della comunità, Autje (Kate Hallett) e Neitje (Liv McNeil), di recente hanno colto uno dei loro fratelli sulla scena del crimine. Molti uomini sono stati arrestati. Quelli rimasti liberi sono andati in città a racimolare soldi per far uscire gli amici e i parenti di prigione, non prima di aver detto alle donne che hanno due giorni per perdonare e dimenticare. Se non lo faranno, non potranno entrare nel regno dei cieli. E saranno anche bandite dalla comunità stessa.

È da qui che comincia l’indagine di Polley su come le donne parlano – o non parlano – delle violenze subite; e su tutti i dilemmi con cui queste “sorelle” sopravvissute devono fare i conti. La regista ci presenta il suo gruppo di personaggi in modo rapido, quasi fossero dei bozzetti tratteggiati con pochi colpi di matita, facendoci comprendere le loro diverse sensibilità prima di lasciare che siano le loro parole a spiegare meglio i differenti caratteri. Salome (Claire Foy) è la rabbia e la giustizia personificate; Ona (Rooney Mara), che è rimasta incinta dopo uno stupro, incarna la speranza, la carità e una calma quasi Zen; Mejal (Michelle McLeod) è al tempo stesso reticente e ribelle (fuma persino!); Autje e Neitje sono ancora bambine, ma molto coscienziose e intelligenti; le due donne più anziane, Greta (Sheila McCarthy) e Agata (Judith Ivey), sono la voce della ragione e dell’esperienza; Mariche (Jessie Buckley) è sprezzante verso tutto e tutte: lei ha sofferto in silenzio, perché non possono farlo anche le altre? L’unico uomo in campo è August (Ben Whishaw), un insegnante di scuola. È anche dichiaratamente innamorato di Ona, e soprattutto è una presenza necessaria, dal momento che nessuna di queste donne sa leggere o scrivere. A nessuna di loro è stato permesso di impararlo.

Finalmente le donne in scena possono parlare di quello che è successo loro, e decidere insieme cosa c’è nel futuro per loro, le loro sorelle e le loro figlie. Women Talking è confezionato come se fosse un dibattito, più che una semplice conversazione: nessuna tra le donne che si sono riunite a discutere sostiene che quegli abusi non ci siano stati, se mai dibattono sulla reazione che devono adottare. Il merito del film è non farlo mai diventare una sorta di spettacolo teatrale filmato. E con un cast come questo non era scontato.

Si può immaginare la tentazione della regista-sceneggiatrice di accendere la cinepresa e lasciare semplicemente tutte queste attrici a utilizzare come credevano la materia incandescente che hanno tra le mani. Non c’è nessuna nota stonata nel modo in cui pronunciano le loro battute, anche quando le cose sembrano prendere una piega fin troppo didattica o quando la narrazione qua e là inciampa. Le diverse interpreti hanno ciascuna lo spazio individuale in grado di esaltare le singole performance – persino quando compaiono in semplici camei: basta un battito di ciglia per perdere Frances McDormand nei panni di una severa matriarca – e nessuna però ruba la scena alle colleghe. Buckley sa quando “spegnere” il proprio sdegno per far brillare la dolcezza di Mara o la tempra di Foy; mentre McCarthy sa mettere nel suo personaggio infinite sfumature, da quelle più innocue a quelle più dure. È come vedere in azione una vera e propria democrazia della recitazione.

Ma Polley è anche una regista con la R maiuscola, e il suo essere stata lontana per un po’ dalla macchina da presa sembra averla indotta a liberare qui tutta questa energia repressa in questi anni. Il suo ultimo film, il bellissimo documentario autobiografico Stories We Tell, è uscito nel 2012, ma nel frattempo le sono successe molte cose: ha passato dieci anni a riprendersi da un trauma cranico, ha scritto una raccolta di saggi, ha firmato la sceneggiatura della miniserie L’altra Grace, ha tirato su la sua famiglia. Ha, semplicemente, vissuto la sua vita. Che la star lanciata dal Dolce domani sia un’ottima direttrice di attori non è una sorpresa, soprattutto considerato quanto il suo lavoro davanti alla cinepresa sia stato ricco e variegato. Ma forse vi siete dimenticati del fatto che ha anche un talento visivo sorprendente, e un vero e proprio dono nel raccontare storie in modo quasi impressionista ma senza mai rinunciare alla chiarezza e alla sincerità (vedi, in questo senso, il montaggio nel finale della storia d’amore dolceamara Take This Waltz).

Ben Whishaw, Rooney Mara e Claire Foy in una scena del film. Foto: Eagle Pictures

La location principale del film è l’interno di un fienile, dove queste donne si confidano e si consolano, piangono e ridono e, naturalmente, parlano. E se Polley si rifiuta di “aprire” quello spazio per non farci distrarre rispetto a ciò che quelle donne stanno dicendo, aggiunge comunque dei rapidi flashback o delle sequenze alla Malick per farci comprendere meglio gli eventi descritti. Sentire improvvisamente Daydream Believer come accompagnamento musicale è una bella sorpresa. Alcune sequenze di raccordo sono fin troppo ellittiche, ma restano comunque capaci di suggerire che è successo qualcosa di orribile. C’è, in generale, una grandissima sensibilità, sia nello stile di Polley che nel montaggio di Christopher Donaldson e Roslyn Kalloo. C’è una voce forte e chiara dietro la macchina da presa, e si capisce che appartiene a un’artista che ha davvero qualcosa da dire.

Women Talking è una storia ambientata in una precisa sottocultura (il libro di partenza è liberamente ispirato a una serie di abusi avvenuti in una vera comunità mennonita boliviana), ma non è affatto una storia su quella subcultura. Sarebbe facile dire che quello che è successo a quei personaggi, che le scelte che devono fare, le discussioni che stanno affrontando e il fatto che i loro vicini, i loro padri, i loro fratelli e i loro amici siano diventati i loro nemici sia un fenomeno che può accadere solo in una comunità isolata come quella. Non è così. È dilagante, sommerso, sistematico. È parte della cultura collettiva.

E anche se negli ultimi anni una resa dei conti è cominciata, la radice non è ancora stata estirpata del tutto. Polley, i suoi collaboratori e il suo cast non pretendono di avere le risposte a tutto questo. Ma sanno che un cambiamento deve arrivare. Può succedere sotto forma di battaglia, oppure con la scelta di voltare pagine e ricominciare da capo. Quello che il film sa benissimo è che, per produrre qualsiasi cambiamento, bisogna iniziare a parlare.

Da Rolling Stone US

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