Let’s Do the Time Warp Again (and Again): 50 anni di ‘The Rocky Horror Picture Show’ | Rolling Stone Italia
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Let’s Do the Time Warp Again (and Again): 50 anni di ‘The Rocky Horror Picture Show’

Il musical di Richard O’Brien e Jim Sharman (starring Tim Curry e Susan Sarandon, tra gli altri) è ancora il rito collettivo più sfrenato e liberatorio del cinema pop. Da Milano a New York, tra corsetti, calze a rete e coreografie, un cult che non si guarda: si vive

Let’s Do the Time Warp Again (and Again): 50 anni di ‘The Rocky Horror Picture Show’

Patricia Quinn (Magenta) Tim Curry (Frank-N-Furter), Nell Campbell (Columbia) in 'The Rocky Horror Picture Show'

Foto: 20th Century Fox

Ci sono film che invecchiano (bene o male), film che vengono riscoperti. E film che, per qualche misterioso incantesimo fatto di paillettes, corsetti e transilvanian science sono nati già cult, più o meno. Come The Rocky Horror Picture Show, uscito nel 1975 che, a cinquant’anni dalla sua prima proiezione (e dopo essere stato sbeffeggiato, rifiutato e finalmente adorato) è ancora lì, a radunare fedeli ogni weekend in sale che diventano templi laici della libertà e pure dell’eccesso.

La trama è una perfetta parodia e insieme dichiarazione d’amore ai B-movie fantascientifici e horror tra gli anni ’30 e ’60. Una coppia di fidanzatini per bene, Brad (Barry Bostwick) e Janet (Susan Sarandon), rimane a piedi in mezzo al nulla e trova rifugio in un castello popolato da un manipolo di creature impegnate in un party e guidate dall’iconico (pardon) Dr. Frank-N-Furter (Tim Curry, nell’interpretazione più lasciva e favolosa della storia del musical). Ci sono entrate in scena epiche, esperimenti al limite, creazioni di uomini perfetti, canzoni che ti si piantano nel cervello per sempre. E poi c’è il Time Warp, il ballo che probabilmente conoscete anche se non avete mai visto il film (pazzi!), magari grazie a Fame, dove facevano la coreografia nel corridoio, o a quell’episodio speciale (con camei d’eccezione di Barry Bostwick himself e Meat Loaf) di Glee, la serie di Ryan Murphy in cui il liceo diventava un teatro off-Broadway per adolescenti.

The Rocky Horror Picture Show | #TBT Trailer | 20th Century FOX

Cinquant’anni dopo la sua uscita, The Rocky Horror Picture Show non è solo un film, è un rituale. Di più: è ancora il rito collettivo più sfrenato e liberatorio del cinema pop. Negli Stati Uniti, già pochi mesi dopo l’uscita (con un’accoglienza inizialmente – ehm – tiepida, per essere morbidi), iniziò a nascere quella che oggi chiameremmo “audience participation”: il pubblico non si limitava a guardare, ma rispondeva ai dialoghi, lanciava oggetti, cantava a squarciagola, si travestiva come i personaggi. La proiezione diventava uno spettacolo nello spettacolo, con “shadow cast”, troupe di fan in costume che recitano il film in tempo reale sotto lo schermo, e un canovaccio di battute da urlare nei momenti giusti. Una partecipazione mimetica, totale, che trasformava lo spettatore in co-protagonista. E ben oltre Halloween.

Col tempo si è codificato un vero vocabolario di props e gesti: riso da lanciare al matrimonio iniziale, pistole ad acqua per la scena della pioggia, giornali di carta in testa come Janet e ovviamente il ballo collettivo del Time Warp. Chi entra per la prima volta è “vergine” e potrebbe finire sul palco a essere battezzato dal cast davanti a tutti. In Italia, il punto di riferimento è il Cinema Mexico di Milano: dal 1981 la sala si trasforma in un piccolo laboratorio di cultura pop underground (all’inizio pure featuring Claudio Bisio!). C’è il cast di performer in costume, c’è il pubblico che risponde battuta per battuta, c’è il brivido di far parte di qualcosa che non puoi vivere davanti a una piattaforma streaming.

Quella del Rocky Horror è una comunità transgenerazionale e fluida: adolescenti in treccine e corsetto accanto a cinquantenni con le stesse calze a rete che indossavano negli anni ’80. Persone che magari non si erano mai vestite in drag prima e che, per una notte, sperimentano il piacere di farlo senza filtri. In questo senso, il film di Jim Sharman, scritto insieme a Richard O’Brien, autore dello spettacolo teatrale originale del 1973 e Riff Raff nella trasposizione cinematografica, è stato un pioniere della rappresentazione queer, della libertà di espressione e di un’idea di sensualità spensierata. O’Brien, che ha firmato anche la prefazione del volume celebrativo per il cinquantesimo anniversario, riflette proprio su questo: “l’incredibile percorso del film fino a diventare un punto di riferimento teatrale con la distribuzione più longeva della storia” e “la sua eredità duratura fatta di fluidità sessuale, eccesso e gioia anarchica”.

E poi ci sono i costumi. La designer Sue Blane, in Rocky Horror: From Concept to Cult, ha raccontato come il look del film abbia influenzato direttamente lo stile punk nascente: “Le calze a rete strappate, i brillantini e i capelli colorati erano direttamente attribuibili a Rocky Horror”, dice, rivendicando un’estetica che avrebbe alimentato intere generazioni di musicisti, performer e club kid. In fondo, basta guardare una foto di Johnny Rotten o di Siouxsie Sioux a fine anni ’70 per capire che un po’ di Transylvania c’era anche lì.

The Rocky Horror Picture Show (1975) - The Time Warp Scene (2/5) | Movieclips

Per i cinefili resta un caso che ha fatto scuola: nato come adattamento teatrale di un piccolo spettacolo londinese, prodotto dalla 20th Century Fox con budget ridotto, ignorato alla prima uscita, salvato dalle proiezioni di mezzanotte a New York e Los Angeles, e poi diventato, come lo ha definito il New York Times: un “low-budget freak show/cult classic/cultural institution” con canzoni irresistibili. Cinquant’anni di repliche continue, senza mai sparire dal grande schermo: un record che neanche certi blockbuster miliardari possono sognarsi.

Negli anni ha generato spin-off teatrali, album tributo, remake televisivi e persino parodie animate nei cartoni più insospettabili (The Simpsons, manco a dirlo). Ma soprattutto ha creato un linguaggio comune: citare “Don’t dream it, be it” o “It’s just a jump to the left” significa far parte di una comunità globale, una tribù che esiste ovunque ci sia uno schermo, un palco e qualcuno disposto a mettersi un paio di zeppe vertiginose.

Oggi, con il mercato saturo di sequel, remake e reboot, un’operazione così spontanea e borderline sembra quasi impossibile. Eppure The Rocky Horror Picture Show continua a vivere come fenomeno live. Certo, puoi guardarlo in streaming o in Blu-ray, ma senza un pubblico urlante e senza qualcun in corsetto che ti passa accanto cantando Sweet Transvestite, è un po’ come bere champagne sgasato: resta il sapore, ma mancano le bollicine.

Il cinquantesimo anniversario non è solo un’occasione per rivederlo: è un invito a fare proprio quello che dice il titolo della sua canzone più famosa. Tornare indietro nel tempo, ballare, lasciarsi andare. Che sia al Mexico di Milano, a un festival queer di provincia o nel salotto di casa con qualche amico disposto a vestirsi da Riff Raff o Columbia, non importa. Perché The Rocky Horror non è un film che guardi: è un film che vivi. Let’s Do The Time Warp Again. And Again and Again.