Le grandi rinascite di Hollywood | Rolling Stone Italia
Second life

Le grandi rinascite di Hollywood

Li davano per spacciati e invece son tornati alla ribalta. Perché si sa: una seconda chance non si nega a nessuno. Da Robert Downey Jr. a Brendan Fraser, da Winona Ryder a Jennifer Coolidge, i falliti che ce l’hanno (ri)fatta

Le grandi rinascite di Hollywood

Foto: HBO/A24/Netflix/Marvel Studios/Fox Searchlight Pictures

Chissà come dev’essere, decidere di diventare un attore e avere la fortuna (e le capacità, va detto) di riuscire a inserirsi nel giro di Hollywood, imbroccando persino le parti giuste nei film giusti. Chissà come ci si sente, ad arrivare al punto in cui il proprio nome diventa per tutti (e per lungo tempo) qualcosa di noto, tanto che le persone si ricordano di te e della tua faccia persino a distanza di anni. Anche provando a mettersi nei panni di chi ci è passato, la sensazione è quella di essere in un film di fantascienza; o forse in un horror? Sì, perché il successo e la popolarità sono sempre tanto croce quanto delizia, ma a Hollywood un po’ di più. Al punto che in un attimo tutto può cambiare, tra dipendenze da droghe, accuse che portano in tribunale, e un telefono che non squilla più. Per fortuna una seconda chance non si nega mai a nessuno. Figuriamoci a chi era riuscito a prendere posto nell’Olimpo degli attori di maggior successo.

Brendan Fraser

Brendan Fraser in ‘The Whale’. Foto: A24

Una vera e propria rinascita: non solo da attore, ma anche da essere umano. Potremmo riassumere così la parabola di Brendan Fraser, quella specie di Tarzan tutto mutandine, addominali e liane che nel 1997 ci ha fatto divertire in George re della giungla…?, per poi ripresentarsi ben più vestito e profumato (forse) tra le dune e le piramidi d’Egitto, nei panni di Rick O’Connell. È il 1999, è La mummia, e al successo del film si somma la consacrazione definitiva di quel Brendan che piace tanto a tutti; anche alle persone sbagliate. Come Philip Berk, che nel 2003 è il presidente dell’Hollywood Foreign Press Association (HFPA), nonché colui che aggredisce sessualmente Brendan (per stessa ammissione di Fraser nel 2018), gettandolo in una cupa depressione. Il divorzio dalla moglie e la morte della madre non fanno che peggiorare il quadro generale, al punto che Fraser decide di prendersi una pausa dai riflettori. E sembrava proprio che la sua carriera fosse ormai giunta al capolinea, quando il regista Darren Aronofsky lo sceglie come protagonista per The Whale (nelle sale italiane il prossimo 23 febbraio), portando a Brendan Fraser il Tribute Award for Performance del Toronto Film Festival, gli applausi e la standing ovation alla Mostra di Venezia e, dulcis in fondo, la nomination agli Oscar come miglior attore protagonista. Statuetta o no, noi lo diamo già per vincente.

Robert Downey Jr.

Robert Downey Jr. alias Iron Man. Foto: Marvel Studios

Oggi rientra nel mucchio dei cosiddetti nepo baby di Hollywood, ma su Robert Downey Jr. non si scherza: il ragazzo ha sempre avuto stoffa. Classe 1965 e figlio di Robert Downey Sr. (appunto), a cinque anni è già sul grande schermo, diretto da papà, nel film Pound e, a sette, nel cast di Greaser’s Palace. Nel 1987, con il ruolo del giovane (e ricco) tossicodipendente Julian Wells in Al di là di tutti i limiti (il film tratto da Meno di zero di Bret Easton Ellis), per Downey Jr. si aprono le porte dei grandi consensi, che tuttavia si concretizzano solo nel 1992, quando veste i panni di Charlie Chaplin in Charlot. Da lì, una candidatura all’Oscar come miglior attore protagonista e una ai Golden Globe come miglior attore in un film drammatico; fino alla vittoria, nel 1993, del BAFTA come miglior attore protagonista. Ma tanto vola verso il sole Icaro, tanto le ali di cera si sciolgono; e così fa Robert, che dal 1996 al 2000 cade in un tunnel di droga, arresti, riabilitazioni e fallimenti. Fino a che arriva il 2008 e un milionario che sa calibrare cervello e coraggio gli dà un’altra chance. Quel tizio è noto a tutti col nome di Iron Man (ma se preferite potete chiamarlo Tony Stark), ed è ben diverso dall’attore australiano Kirk Lazarus di Tropic Thunder (2008), che però vale a Downey Jr. la nomination agli Oscar e ai Golden Globe come miglior attore non protagonista. E che dire dello Sherlock Holmes che, nel 2009, vale la vittoria (finalmente!) del Golden Globe per il miglior attore in un film commedia o musical? Con Robert Downey Jr. è elementare, Watson.

Mickey Rourke

Mickey Rourke in ‘The Wrestler’. Foto: Fox Searchlight Pictures

Nascere nel 1952 in una cittadina vicino a New York; crescere come pugile che picchia forte in quel di Miami Beach; finire per studiare recitazione con (nientemeno che) Al Pacino al Lee Strasberg Theatre and Film Institute di New York: tutto nella norma, per uno come Mickey Rourke; in altri termini, per Philip André Rourke Jr.; in altri termini ancora, per uno degli attori più in voga negli anni ’80. È infatti il 1983 quando Rourke inizia ad attirare l’attenzione prima del pubblico (interpretando il fratello di Matt Dillon in Rusty il selvaggio), poi della critica (grazie al film Il Papa del Greenwich Village, nel 1984), e infine dell’intera umanità senziente, che nel 1986 vede in quel focoso John Gray di 9 settimane e ½ un ottimo motivo per incoronare Rourke quale sex symbol del decennio. Peccato però che dall’essere bello e bravo (vedasi nel 1986 Barfly – Moscone da bar, ma soprattutto Angel Heart – Ascensore per l’inferno, nel 1987), Mickey di lì a poco inizia a far parlare di sé per il (probabile) uso di droghe, le (possibili) amicizie con individui che sono pappa e ciccia col boss mafioso John Gotti e la (certa) «autodistruzione» (cit.) che nel 1991 lo porta a dedicarsi anima e cuore al pugilato. Un tot di ossa rotte e interventi di chirurgia plastica dopo, nel 2008 c’è la grande rinascita grazie a The Wrestler (Leone d’oro a Venezia), che vale a Rourke la vittoria di un Golden Globe, di un BAFTA e dell’Independent Spirit Award (nonché, due anni dopo, il ruolo di Whiplash in Iron Man 2). Insomma, della serie che quando si è grandi attori ma si tocca il fondo, a Hollywood l’unica è sperare di finire in un film di Darren Aronofsky.

Jennifer Coolidge

Jennifer Coolidge in ‘The White Lotus 2’. Foto: HBO

«Mike White, mi hai dato speranza. Mi hai dato un nuovo inizio. Anche se questa è la fine, perché mi hai fatto ammazzare». Se vi state chiedendo chi sia Mike White, è perché probabilmente non avete visto la serie The White Lotus; e se è la prima volta che leggete questo virgolettato, è perché forse vi è sfuggito non “un” discorso di ringraziamento, ma “il” discorso di ringraziamento di Jennifer Coolidge agli scorsi Golden Globe. Classe 1961, nata e cresciuta nello Stato del Massachusetts, appena possibile Jennifer fa i bagagli e si trasferisce a New York per studiare all’American Academy of Dramatic Arts, dove rincorre il sogno di diventare un’attrice drammatica come Meryl Streep. Ma i piani che il mondo di Hollywood ha in serbo per lei sono altri (e ben più divertenti), e così nel 1999 ottiene una parte nella teen sex-comedy American Pie, dove veste i panni della MILF per eccellenza: Jeanine Stiffler. E vuoi per lo straordinario successo del film (e dei tre che seguono), vuoi per l’anima comica che traspare dalla sua interpretazione, ecco che la “mamma di Stifler” diventa la benedizione e la condanna di Coolidge, che da lì in avanti non riesce a ottenere altro se non ruoli minori, seppur in commedie e serie di successo come La rivincita delle bionde e Zoolander (entrambi del 2001); La vita segreta di una teenager americana (a partire dal 2008) e 2 Broke Girls (dal 2011). Ma poi arriva il 2020, Mike White e The White Lotus; il riconoscimento da parte del pubblico e della critica; un Primetime Emmy e un Golden Globe, entrambi come miglior attrice non protagonista. E fu così che le ceneri di Jeanine Stifler vennero finalmente spazzate via da Tanya McQuoid; e la rinascita di Jennifer Coolidge si compì.

Winona Ryder

Winona Ryder in ‘Stranger Things’. Foto: Netflix

Quando si parla degli attori di maggior successo degli anni ’80 e ’90, non si può non menzionare lei: Winona Laura Horowitz. O per meglio dire: Winona Ryder. L’attrice prodigio che nel 1986 debutta a soli quindici anni nel film Lucas, finendo due anni dopo già sotto la regia di (nientemeno che) Tim Burton sul set di Beetlejuice – Spiritello porcello, ottenendo subito dopo i primi ruoli di rilievo in film come Schegge di follia (1989) e Edward mani di forbice (dove lavora ancora con Tim Burton, nel 1990); nonché la prima candidatura ai Golden Globe per Sirene (1990). Per farla breve: non siamo neanche alla metà degli anni ’90 e Winona potrebbe dire di aver raggiunto l’apice del successo lavorando con Francis Ford Coppola in quel Dracula di Bram Stoker (1992), e di aver ricevuto il Golden Globe per la miglior attrice non protagonista e la prima candidatura agli Oscar e ai BAFTA per L’età dell’innocenza (è il 1993, la regia è di Martin Scorsese), ma anche una seconda candidatura agli Oscar per Piccole donne (1994). Ma se menzionare la stella sulla Hollywood Walk of Fame (nel 2000) a questo punto sembra proprio roba di poco conto, lo stesso non si può dire di quanto succede nel 2001, quando (sorpresa!) Ryder viene arrestata per furto in un centro commerciale di Beverly Hills. Da lì, la confessione di soffrire di cleptomania (abbigliamento e analgesici vanno forte, pare), che la portano a una condanna a tre anni di libertà vigilata; per non parlare del pagamento della multa, delle ore di volontariato e del trattamento psichiatrico. In ogni caso, tutte punizioni di poco conto, se si considera che a quel punto la grande carriera di Winona pare proprio essere kaputt. Tanto che non basta quel ruolo da protagonista in Mr. Deeds (nel 2002, con Adam Sandler) a risollevarne le sorti; e neppure la parte in The Iceman (2012), per quanto sembri ridarle valore. Per fortuna nel 2016 con Stranger Things succede qualcosa di incredibile: e non stiamo parlando della scoperta del Sottosopra, ma di quanto un personaggio come quella Joyce Byers abbia saputo risollevare le sorti di una star del calibro di Winona Ryder.

John Travolta

John Travolta in ‘Pulp Fiction’. Foto: Miramax Films

Sono gli anni ’70 e di fronte a voi avete un attore, cantante, ballerino: signore e signori, vi presentiamo John Travolta. Classe 1954, ultimo di sei fratelli, quando John ha dodici anni per i suoi genitori è del tutto chiaro: quel ragazzino ha stoffa. Così iniziano le lezioni di tip-tap con Fred Kelly (fratello di quel Gene) e le partecipazioni ad alcuni musical di quartiere. Abbandonati gli studi per dedicarsi alla propria carriera, nel 1971 John viene ingaggiato nella compagnia itinerante del musical Grease, il cui successo lo porta fino a Los Angeles e poi a New York, dove studia recitazione. Grazie al ruolo di Vinnie Barbierino nella serie tv I ragazzi del sabato sera (1976), ecco allora che il ventiduenne tutto ballo e capelloni viene notato dal regista John Badham, che decide di renderlo quel Tony Manero che tutti abbiamo visto muoversi a suon di disco music nella Febbre del sabato sera, film cult del 1977. Saranno state le lezioni di tip-tap? O sarà che John Travolta ha il ritmo nel sangue? Quel che è certo è che la sua interpretazione convince tutti: il pubblico che cerca di imitarne le movenze, e Hollywood che lo riconosce come un divo (regalandogli anche la prima candidatura agli Oscar). La conferma arriva un anno dopo, quando John passa dall’essere “quel” Tony Manero, a rappresentare “quel” Danny Zuko. Ovvero: il bello bellissimo dai capelli perfetti e dal giacchino di pelle protagonista dell’(altrettanto) iconico Grease. Ma come può succedere che il migliore ballerino in pista inciampi, così anche il nostro finisce per ruzzolare giù dalla scala che l’aveva portato al successo: prima rifiutando nel 1980 la parte in American gigolò; poi declinando l’offerta per quella in Ufficiale e gentiluomo, nel 1982. E mentre Richard Gere si sfrega le mani e si gode il successo, John rimane coi piedi per aria e la bocca asciutta. Per fortuna nel 1989 c’è Senti chi parla, il film campione d’incassi che lo fa rimettere in piedi; ma soprattutto, per fortuna nel 1994 esiste uno come Quentin Tarantino, che con Pulp Fiction riesce a incollare su John un personaggio eccezionale come Vincent Vega. Ovviamente mettendolo a un certo punto su una pista da ballo – ma con la pistola nel taschino.

Ke Huy Quan

Ke Huy Quan in ‘Everything Everywhere All at Once’. Foto: A24

Droghe? Scandali sessuali? Cattive amicizie? Macché: Ke Huy Quan è sempre stato nu buono guaglione; a cui però non è più squillato il telefono. Nato nel Vietnam del Sud nel 1971 e cresciuto per qualche tempo a Hong Kong, Ke Huy (o meglio dire Jonathan Ke?) ha otto anni quando si trasferisce con la sua famiglia in California (ovvero: in quella magica terra dove a ogni prugna Sunsweet corrisponde un set cinematografico) e neanche dodici quando ottiene la sua prima, grande occasione di attore partecipando a un casting in una scuola elementare (che dicevamo?). È il 1984 e Ke Huy diventa il ragazzino che affianca Harrison Ford in Indiana Jones e il tempio maledetto (sotto la regia di un altro pezzo grosso: Steven Spielberg), nonché il vincitore dello Young Artist Award. L’anno dopo è la volta dei Goonies, che lo consacra tra i giovanissimi attori di Hollywood, aprendogli la strada alla partecipazione in produzioni internazionali (come il taiwanese It Takes a Thief e il giapponese Passengers) e nazionali (come la serie tv Togheter We Stand, tra il 1985 e il 1986, nella parte di Sam). Dopodiché il (quasi assoluto) silenzio, che per trent’anni porta l’attore a dedicarsi al cinema, sì: ma come coreografo di stunt (vedasi: X-Men). Poi nel 2020 arriva una chiamata dai registi Daniel Kwan e Daniel Scheinert; il display si illumina sulla scritta: Everything Everywhere All at Once. «Per tanti anni ho avuto paura di non aver più nulla da offrire», ha detto tra le lacrime Ke Huy Quan, mentre lo scorso gennaio riceveva il Golden Globe come miglior attore non protagonista (segue nomination agli Oscar, of course). E chissà che in prima battuta non abbia detto lo stesso, rispondendo a quella chiamata là.

Ben Affleck

Ben Affleck in ‘Argo’. Foto: Warner Bros.

Inutile girarci intorno, la verità è una sola: verso la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000 tutti guardano Ben Affleck come si guarderebbe un dio. Gli uomini perché vogliono essere come lui; le donne perché vedono in Affleck quel bellone innamorato e romantico di Armageddon prima e di Pearl Harbor poi. Il fatto è che il fascino di Ben(-jamin Géza) Affleck è qualcosa che si è costruito man mano: partendo da quel ragazzino born in California e classe 1971 che già a tredici anni è la star del programma tv americano The Voyage of the Mimi e, successivamente, volto di alcuni spot tra cui quello di Burger King nel 1989. L’anno zero è però il 1992, quando il giovanissimo Ben inizia a lavorare con (l’altrettanto giovanissimo) amico di sempre Matt Damon alla sceneggiatura di Will Hunting – Genio ribelle. Il film viene distribuito solo nel 1997, ma l’attesa porta con sé la vittoria di un Golden Globe e di un Oscar per la miglior sceneggiatura originale. L’anno dopo è la volta di Armageddon (anche se pare non convinca molto il regista Michael Bay) e di Shakespeare in Love, e quindi Ben finisce per conquistare definitivamente il cuore delle ragazzine di tutto il mondo (ma non dei critici) con Pearl Harbor, nel 2001. Parentesi amorosa dei Bennifer (che lui e Jennifer Lopez furono dal 2003) e conseguente declino artistico a parte, nel 2006 l’attore è alla Mostra di Venezia, dove si aggiudica la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile per il suo George Reeves nel biopic noir Hollywoodland, mentre il successo di Gone Baby Gone (2007) e The Town (2010) lo consacra come ottimo regista. A conferma di ciò, nel 2012 il film Argo gli vale il secondo Oscar (questa volta per il miglior film), nonché, in qualità di regista, un Golden Globe, un Directors Guild of America Award e un premio BAFTA. La carriera che ha alle spalle; l’incetta di premi e riconoscimenti; la conferma del ruolo di Bruce Wayne/Batman per quel Batman v Superman: Dawn of Justice del 2016: nulla di tutto questo può alla crisi che si innesca in quegli anni, quando ai problemi legati alla produzione di Justice League si sommano quelli del divorzio dalla moglie Jennifer Garner. E così nel 2017 arriva il secondo rehab per i problemi di alcolismo (il primo, nel 2001), con la terza ricaduta solo un anno dopo, fino a che le partecipazioni ai film Triple Frontier (2019) e Tornare a vincere (2020) aprono le porte alla rinascita di Ben Affleck. Rinascita che arriva davvero solo nel 2021, con le candidature ai Golden Globe come migliore attore protagonista e miglior attore non protagonista, rispettivamente per The Last Duel e Il bar delle grandi speranze, e (ciliegina sulla torta) con la distribuzione del tanto atteso Zack Snyder’s Justice League. Ah, poi l’anno scorso c’è stato l’effettivo ritorno dei Bennifer, con tanto di matrimonio (e meme) a darci prova che Ben è di nuovo felice; ma magari questo lo raccontiamo un’altra volta.