C’è un momento preciso in cui si capisce cosa vuole dirci Springsteen – Liberami dal nulla (nelle sale dal 23 ottobre). Compare a tutto schermo il faccione di Martin Sheen in Badlands, cioè La rabbia giovane, e il cinema si confonde specularmente e definitivamente con quella vita che stiamo vedendo scorrere sullo schermo. È un cortocircuito in cui c’è dentro tutto. Kit, cioè il giovane e bruciato Sheen, diventa Bruce. O forse è il contrario.
La rabbia giovane di Terrence Malick è il film in cui Holly, il personaggio di Sissy Spacek, a un certo punto dice: “We lived in utter loneliness, neither here nor there. Kit said that ‘solitude’ was a better word, ’cause it meant more exactly what I wanted to say”. Non vado nemmeno a cercare come l’hanno reso da noi, perché è una frase intraducibile in italiano. È in quello slittamento semantico ed esistenziale tra loneliness e solitude che s’inserisce il Bruce Springsteen di Liberami dal nulla.
All’inizio di questa storia, Bruce non è a complete unknown. Viene da un album (The River) e un tour di enorme successo. Le groupie lo fermano per strada. Ha in mano un pugno di canzoni che potrebbero farlo diventare ancora più star. Su tutte, un piccolo brano intitolato Born in the U.S.A. Però c’è qualcosa. Loneliness, solitude, chiamatela come volete. Un’ombra dal passato. Un padre che c’è e non c’è, l’alcol, le liti in cucina di notte. Oggi si direbbe: un trauma irrisolto. Dico io, di nuovo: una rabbia giovane.
Sintetizzo – non me ne vogliano i puristi – come del resto sintetizza il film, che non prende la strada di certi biopic musicali che coprono (malamente) tutta una vita. Qui, proprio alla maniera del film su Dylan, si sceglie un momento preciso. Un passaggio. No: il passaggio. Là la svolta elettrica, qui – sempre per sintesi – la sterzata folk. Là Timothée Chalamet, qui Jeremy Allen White, nuovi idol Gen Z pieni di febbrile talento che non puntano al Tale e quale show. Là James Mangold, qui Scott Cooper, registi di solido mestiere che non vogliono autoreggiare troppo, e per la riuscita di entrambi i film è decisamente meglio così.
Sento brevemente White e Cooper su Zoom dopo l’anteprima italiana del film.

Jeremy Allen White e il regista Scott Cooper all’anteprima romana di ‘Springsteen – Liberami dal nulla’. Foto: 20th Century Studios
The Boss, the man
«Ci sono così tanti filmati e interviste di Bruce l’artista e l’icona», attacca Jeremy Allen White. «Soprattutto negli ultimi anni, dopo che ha pubblicato la sua autobiografia [Born to Run], Bruce è diventato non solo un po’ più vecchio, ma anche molto schietto e onesto riguardo al periodo più duro della sua vita. Dovevo acquisire tutte queste informazioni. Erano tutte cose che non conoscevo, che l’artista Bruce Springsteen non aveva mai mostrato. Però, per sfortuna mia, molti di questi dilemmi interiori, dei momenti difficili che ha attraversato, erano qualcosa che invece mi era molto familiare, perché ci sono passato anch’io. Ho avuto le mie difficoltà. Nel periodo in cui lo racconta il film, Bruce è un uomo che sta per perdere il controllo, e anch’io in alcuni momenti della mia vita ho provato la stessa sensazione. Conosco quella cosa che ti si para davanti. So che aspetto ha. Perciò mi sentivo come se stessi visitando una sorta di spazio che già conoscevo per dare vita agli aspetti più privati di Bruce, e allo stesso tempo sapevo che sarei dovuto invece partire da zero per [raccontare] il Bruce che tutti conosciamo sul palco».

Jeremy Allen White nei panni del boss sul palco. Foto: 20th Century Studios
Prima di girare, Scott Cooper, già dietro film come Crazy Heart, Il fuoco della vendetta – Out of the Furnace e Black Mass – L’ultimo gangster, ha incontrato il vero Springsteen. Mi chiedo se qualcosa sia cambiato rispetto alla percezione che ne aveva, e se anche il ritratto che ne emerge sullo schermo ne abbia risentito. «Sì, senza dubbio. Sono pochissimi quelli che vivono in un’atmosfera, diciamo così, rarefatta come Bruce Springsteen. Possiamo solo avere un’idea di chi sia quella persona, e quell’idea che ti sei fatto te la porti dietro quando vai per la prima volta a incontrarla. Ma dopo neanche due minuti lui aveva già completamente distrutto l’immagine di Bruce il mito, l’icona, e mi aveva mostrato l’uomo incredibilmente generoso, divertente, umile e accogliente che è. Mi ha svelato in un attimo un lato molto umano in cui potevo riconoscere me stesso, e in cui potranno forse riconoscersi anche molti altri. E tutto questo mi ha fatto pensare: sarò in grado di raccontare davvero questa storia in cui non ci concentreremo tanto sul Bruce Springsteen che fa concerti a Roma o a Milano, ma sul Bruce Springsteen che sta lottando nel silenzio della sua casa, che ha il coraggio di guardarsi dentro, di assumersi quel tipo di rischio creativo? Ho capito immediatamente che questa sarebbe stata una delle esperienze più profonde della mia carriera».
Le cose sbagliate, le cose giuste
A un certo punto nel film si sente dire che “spesso le cose sbagliate portano alle cose giuste”. Per la discografia che aveva tra le mani il nuovo rocker delle meraviglie, incarnata da Al Teller della Columbia (sullo schermo David Krumholtz), Nebraska – il disco che sarebbe emerso da quel guardarsi dentro, dal dialogo a distanza con quel padre (Stephen Graham di Adolescence), da quella sensazione di perdere il controllo così presente e precisa davanti ai suoi occhi – era la cosa sbagliata.
«Credo che il modo in cui la parola “sbagliato” viene usata qui si concentri soprattutto sul risultato, sull’aspettativa che abbiamo nei confronti di qualcosa», commenta White. Che di fatto sembra descrivere, indirettamente o forse no, il modo in cui ha affrontato uno dei ruoli più impegnativi della sua carriera. «Se quando lavori la tua attenzione è rivolta al risultato finale o alle aspettative degli altri, e se nel tuo processo creativo fai entrare tutto questo, allora andrai per forza a sbattere contro un muro. Mentre lavori a qualcosa, non puoi programmare cosa verrà fuori alla fine». Non lo poteva immaginare mentre girava The Bear, che grazie alla stessa frenetica adesione al personaggio l’ha consacrato stella; non lo poteva (non lo voleva) prevedere qui, con una posta in gioco ben più alta e soprattutto reale.

Jeremy Allen White/Bruce Springsteen con Jeremy Strong alias il suo manager Jon Landau. Foto: Macall Polay/20th Century Studios
Qualche giornale americano ha criticato l’intoccabile Taylor Swift per The Life of a Showgirl. “Taylor Swift ci piace anche quando è felice?”: ero incappato in questo titolo del New Yorker poco prima di vedere Liberami dal nulla, e forse a quello pensavo guardando il Boss che, per niente felice, pubblica un disco invece miliare scontentando per davvero l’industry tutta – ma non, come qualcuno a cominciare dal suo manager Jon Landau (Jeremy Strong nel film) temeva, i fan: Nebraska, che su richiesta del suo autore non sarà accompagnato da nessuna attività stampa o tour o qualsivoglia forma di promozione, arriverà terzo nella classifica degli album più venduti quell’anno.
«Intendiamoci: quel disco è Nebraska!», sbotta Jeremy Allen White. «[Springsteen] non sapeva nemmeno se stesse facendo un album o solo registrando delle singole canzoni. Era semplicemente quello di cui aveva bisogno in quel momento. Tutta la roba che aveva dentro doveva uscire, punto. Non c’erano aspettative, né nessuna idea del risultato, ed è così che ha dato vita a questo disco pazzesco».
«Il processo dietro Nebraska in particolare e tutto ciò che Bruce ha messo nel realizzare questo album ci dicono cosa vuol dire prendersi grandi rischi creativi», gli va dietro Scott Cooper. «Nebraska è molto diverso da tutti gli altri dischi di Bruce. Se posso trarre una lezione per la mia carriera, è esattamente questa: rischiare, ad ogni costo».
Il cinema, la vita
C’è tantissimo cinema, in Liberami dal nulla e nella vita di Springsteen per come ci viene qui raccontata. La rabbia giovane, dicevo. Il padre che lo porta a vedere La morte corre sul fiume, con un altro faccione, quello di Robert Mitchum, che è l’iniziazione alla paura, al buio del mondo adulto. Il film Born in the U.S.A., scritto per lui da Paul Schrader e mai realizzato (questo lo sapevamo). C’è il romance (la storia con la madre single Faye Romano, interpretata da Odessa Young) e il bromance (Landau, ma pure Mike Batlan, Chuck Plotkin e Steven Van Zandt). E ci sono anche i libri. I racconti di Flannery O’Connor tenuti accanto alla chitarra per trovare immagini, risposte. E c’è un viaggio dall’altra parte dell’America per ricominciare, forse, tutto, che è un altro film ancora. Il road movie, l’Americana, la frontiera. Reborn in the U.S.A., si potrebbe dire. Dopo il buio, la luce dell’infinita terra americana.

Jeremy Allen White in una scena del film. Foto: Macall Polay/20th Century Studios
«Quando giro un film penso solo: come posso raccontare una storia che sia il più umana possibile?», mi dice Cooper parlando del suo viaggio per arrivare al cuore di Bruce Springsteen. «Come posso raccontare una storia che ti commuova, che ti diverta, che ti faccia ridere, che ti faccia piangere? Mettere insieme tutte le esperienze umane, questo è il mio obiettivo finale. Tutto il resto è, nel bene o nel male, irrilevante».
Tutte le esperienze umane – la loneliness o la solitude, la disperazione e la rinascita, il tutto e il nulla – insieme, anche solo per il tempo di un film. “I can’t say that I’m sorry for the things that we done / At least for a little while, sir, me and her we had us some fun”, cantava del resto qualcuno, in quel disco là.












