«Con Toni Servillo ce lo ripetiamo sempre, “Dobbiamo fare un film d’amore”. Ma forse è l’ultima cosa che uno nella vita arriva a conoscere e a capire davvero, quindi questa cosa apparentemente banale del film d’amore non riusciamo mai a farla perché non riusciamo a trovare l’idea che consente di raccontare veramente l’amore, visto che l’amore non sai cos’è veramente». Paolo Sorrentino l’ha detto a Rolling Stone quando è uscito Parthenope, ed era un MacGuffin evidente, ovvio che uno pensava: il film d’amore ce l’hanno già.
Eccolo infatti, La grazia, bellissima apertura di Venezia 82, nelle sale il prossimo 15 gennaio. Un film d’amore come poteva immaginarlo Sorrentino oggi. Un film d’amore quasi processuale, un amore in contumacia, un amore da portare sul banco di un unico imputato: noi stessi, e chi siamo (e chi, e cosa amiamo) veramente. Se là erano le conseguenze, qui dell’amore si cercano le cause, anzi i moventi.
“Di chi sono i nostri giorni?”. È la domanda ricorrente, ed è come se lo sguardo finale e struggente (“struggente è la parola giusta”, cit. da questo nuovo film) di Stefania Sandrelli fosse volato fin qui. Che poi, azzardo io, è lo sguardo di Sorrentino, lo sguardo di chi si prende tempo per capire cos’è il tempo, quando ce n’è più dietro che davanti.
Ma – lo dicevamo con lui sempre in quella chiacchierata – con l’altro mantra ripetuto qui: “Sei mai stato leggero?”. E quindi largo alla grande leggerezza, almeno nelle intenzioni di questo processo all’amore.

Toni Servillo in una scena del film. Foto: Andrea Pirrello
Al Presidente della Repubblica (Toni Servillo, un non-Mattarella un po’ Gambardella, stessi divani, stessa sigaretta, ma non lo stesso coraggio della giacca rossa su pantaloni bianchi) restano sei mesi alla fine del suo mandato. Può ancora firmare una legge sull’eutanasia con cui tiene in sospeso il governo e soprattutto sua figlia (Anna Ferzetti), giurista come lui. Gli arrivano due richieste di grazia che non sa se concedere o meno. Sono altre due storie d’amore, altri due processi all’amore. Ma sono anche la storia del suo amore. Di quello che gli ha dato, di quello che gli ha tolto. Dopo la presenza immanente di Parthenope, c’è l’assenza impalpabile di Aurora, la moglie morta, non dimenticata ma usata, come una prova processuale, per alimentare un racconto che lì si è fermato. E invece può esserci ancora vita, ancora amore.
La grazia è una storia di politica, di riti (anche se “sono stufo dei riti”), di doveri, di ambizioni (l’unico tratto dell’essere umano che un Presidente della Repubblica dovrebbe abolire, gli dice l’amica del cuore). Ma è una storia leggera, che divaga consapevolmente tra i suoi due cuori: la decalcomania di un senso – politico, civico, collettivo – sempre più slabbrato, e la bellissima inconsistenza delle nostre passioni: e se è lì che dovremmo andare? Non è che dobbiamo disunirci dalla nostra immagine pubblica, anche noi che Presidenti non siamo, per unirci a chi siamo veramente?
È leggera anche la mano, il modo, l’impianto volutamente meno kolossal di questo film (in cui però restano gli ottimi Daria D’Antonio alla fotografia e Cristiano Travaglioli al montaggio). Pur nel campionario, senza però birignao, dei sorrentinismi: il Papa nero in motoretta, il coro degli alpini, la quinoa, la telefonata con la direttrice di Vogue Italia, le case dei vecchi, Guè, il solito animale che passa dove non te l’aspetti, ma che stavolta è un cane robot.
«Con Toni Servillo ce lo ripetiamo sempre, “Dobbiamo fare un film d’amore”», e Sorrentino parlava al plurale perché si vede anche qui che ogni loro lavoro insieme è una costruzione a due. Qui è la costruzione di un amore e di un personaggio, Mariano De Santis, che è somma di cose che abbiamo visto tutti, e altre che ancora non sapevamo. È l’anti-Divo che, lontano da tutti Loro, definisce ancora meglio un certo modo di essere italiano, dentro e fuori dalla politica.

Anna Ferzetti. Foto: Andrea Pirrello
E poi Anna Ferzetti scelta felicissima e puntualissima, e la corte precisa di segretari e corazzieri, e l’amica del cuore che dicevo prima (nome magnifico: Coco Valori) che alla proiezione stampa veneziana ha scatenato più di un applauso a scena aperta. La interpreta Milvia Marigliano, che definisce un’altra maschera esattissima, un’altra storia d’amore e di disamore, di un cinismo pieno di tenerezza.
«Non so se tutti i miei film sono sull’amore, però con gli anni il tema dell’amore mi piace molto», mi aveva detto Sorrentino sempre in quella conversazione. Ecco: La grazia è un film dove c’è, prima di tutto, il piacere. Di indagare, di domandare, pure di perdersi. Se non è Dio a dare le risposte, dice il Papa coi rasta, figuriamoci se possiamo farlo noi.
Non c’è dunque risposta alla domanda “che cos’è l’amore?”, ed è giusto così. Forse sono tutte le lacrime che si vedono in questo film, ma lacrime di gente che quasi sempre, quando piange, sorride. Del resto, non fa forse ridere una lacrima che resta sospesa nello spazio, senza gravità, dove c’è solo leggerezza?













