“Non è paranoia se sta accadendo davvero”, dice Lo Blacklock, giornalista investigativa con la schiena dritta e un trauma non risolto alle spalle, all’inizio del thriller Netflix La donna della cabina numero 10. È la frase di chi sta per essere inghiottita da un incubo lucido, di chi ormai ha capito che nessuno le crederà. È anche la battuta più vera di tutto il film: il sospetto che qualcosa di terribile stia accadendo, ma che tutto, intorno, sia troppo levigato, troppo first world problems per sembrarlo davvero.
Si apre come un giallo alla vecchia maniera e finisce un po’ come un sogno sfocato in mare aperto La donna della cabina numero 10, ma non riesce mai, manco per sbaglio, a entrarti hitchcockianamente sotto pelle come vorrebbe, ecco. È tratto dal romanzo di Ruth Ware, bestseller (come si dice? Il libro è sempre meglio del film?) di quegli anni in cui ogni copertina prometteva “un nuovo caso alla Gone Girl“, e diretto da Simon Stone, che prova a imbarcare Keira Knightley in un thriller d’atmosfera tra cocktail, ansia e design nordico. La sua Lo Blacklock, reduce da un articolo molto importante sui bambini curdi, viene invitata da un miliardario, Richard Bullmer (Guy Pearce), e dalla moglie a scrivere un reportage sul viaggio inaugurale di un megayacht tra i fiordi norvegesi per raccontare la fondazione che la coppia sta per lanciare, con tanto di gala benefico. Ovviamente qualcosa va storto: una notte Lo sente un tonfo, vede (o crede di vedere, no spoiler) una donna gettata in mare dalla cabina accanto. Ma nessuno le crede, nessuna risulta scomparsa, e l’incubo comincia.
In teoria, c’è tutto quello che servirebbe per una Finestra sul cortile in mare aperto (pardon): la protagonista fragile ma determinata a cui nessuno crede, la solitudine, il panico che si mescola all’alcol, una claustrofobia scintillante, un microcosmo di sospetti a porte chiuse, la paranoia che diventa certezza solo quando ormai è tardi. Ma Hitchcock costruiva i suoi brividi come trappole per lo spettatore, non per il personaggio; qui invece restiamo imprigionati (ehm, più o meno) nella psiche di Lo senza riuscire a provare la sua angoscia. La osserviamo dubitare, urlare, piangere, cercare prove. E proprio quella paranoia, che Knightley interpreta con una bella misura di fragilità e rabbia, non diventa mai, MAI contagiosa.
Keira resta la cosa migliore a bordo, e in certi momenti pare chiarissimo perché la sua carriera sia tornata interessante grazie a Netflix. In Black Doves, la spy-serie di spionaggio che l’ha riportata in auge, era magnetica e ironica. Qui è trattenuta, forse troppo: fa di tutto per trascinare la storia in profondità, ma la sceneggiatura la riporta sempre a galla. Nel romanzo Lo era un incrocio riuscitissimo tra Bridget Jones e Miss Marple; nel film si spinge più l’acceleratore sul cliché della donna “spezzata”. E un po’: che noia. La segui mentre tenta di convincere tutti che non è pazza, ma di nuovo mai, manco per sbaglio, finisci per condividere la vertigine (pardon) con lei. La regia la osserva da lontano, con un controllo che toglie respiro proprio dove servirebbe lasciarsi andare, come se anche noi fossimo passeggeri di prima classe intenti a guardare una crisi nervosa da dietro il vetro.

Keira Knightley e Guy Pearce in ‘La donna della cabina numero 10’. Foto: Netflix
Con lo stesso materiale, Agatha Christie avrebbe saputo trasformare la crociera in un piccolo inferno di eleganza e cattiveria, mettendo in scena una danza perfetta di indizi e sospetti. Avrebbe chiuso ermeticamente lo spazio, moltiplicato le bugie e i dubbi, trasformato ogni bicchiere di champagne in una pistola fumante e fatto emergere i mostri con un colpo di dialogo. E grazie, direte voi, i Maestri sono i Maestri, ma tant’è. In La donna della cabina numero 10 invece le congetture si confondono in un cast di facce belle e poco memorabili (da Hannah Waddingham a Kaya Scodelario). Tutti, dai ricchissimi ospiti ai misteriosi membri dell’equipaggio, sembrano sapere qualcosa, ma nessuno è davvero interessante. Nemmeno la colpa, che dovrebbe essere il motore invisibile del film, riesce a sedimentare. Ci sono momenti in cui si intravede quello che avrebbe potuto essere: una specie di Assassinio sul Nilo con un’anima più malinconica o un La donna che visse due volte progettato da un architetto scandinavo. Bella la fotografia, ma resta tutto confinato nell’idea del “thriller da salotto (extra-lusso)” in cui tocca per forza sospendere l’incredulità per uscirne vivi. Ogni tanto si intravedono una soggettiva sfocata, un sorriso che sembra nascondere un movente, un viso che scompare dietro un riflesso, un urlo coperto dal rumore del motore. Ma non basta.
Hitchcock avrebbe fatto del mare un abisso, Agatha Christie una trappola. Qui è solo uno sfondo come un altro: fermo immobile, come una lastra di vetro. “Non è paranoia se sta accadendo davvero”. Peccato che, in fondo, l’unica cosa che affonda sia proprio la suspense.













