Kill Alex Infascelli If You Can | Rolling Stone Italia
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Kill Alex Infascelli If You Can

«Il mio amore per il documentario nasce da un atto di ribellione, di libertà». Il regista romano è arrivato alla terza prova col genere: ‘Kill Me If You Can’. Una storia vera così incredibile da aver ispirato ‘Rambo’. Ma anche l’occasione per riflettere su cos’è il cinema oggi

Kill Alex Infascelli If You Can

Raffaele Minichiello (a sinistra) con il regista di ‘Kill Me If You Can’ Alex Infascelli

Foto: Wanted Cinema

All’inizio degli anni 2000 era un talento visivo, uno di quelli che hanno portato una ventata di rinnovamento all’interno del genere in Italia. Almost Blue e Il siero della vanità erano oggetti non identificati, purtroppo, per il cinema nostrano di quegli anni, per non parlare di H2Odio, opera ultrasperimentale in tutto, compresa la distribuzione. Fu il primo esempio di vendita di un prodotto di prima visione su supporto fisico (dvd) attraverso la più grande rete di vendita italiana (all’epoca): le edicole. Come andò lo racconta lo stesso Alex Infascelli nella lunga chiacchierata che abbiamo fatto per parlare del suo nuovo film, il suo terzo documentario dal 2015 (nel mezzo anche il bel Piccoli crimini coniugali, con Sergio Castellitto e Margherita Buy). Dopo S Is for Stanley e Mi chiamo Francesco Totti, Alex è andato a pescare una storia davvero incredibile, quella di Raffaele Minichiello, il primo dirottatore transoceanico nella storia, ancora oggi detentore del record per il più lungo dirottamento, in termini di chilometraggio, della storia dell’aeronautica civile.

Minichiello ha avuto poi una vita incredibile e dolorosa, ha attraversato cinquant’anni di storia italiana di cui è stato probabilmente anche oscuro protagonista dietro le quinte, come si scopre a un certo punto in Kill Me If You Can, che dal 27 febbraio al 1° marzo è nelle sale italiane distribuito da Wanted Cinema. Un bel racconto di un uomo pieno di contraddizioni, con molte ombre, ma anche incredibilmente umano e la cui vita è davvero diventata un film. Anzi, un romanzo prima, First Blood, di David Morrell, che al cinema diventò Rambo. Eh già, il reduce del Vietnam osteggiato in patria che fa un gesto plateale per far sì che il mondo si accorga di lui è ispirato proprio a questo figlio di emigranti dell’Irpinia che nel 1964 arriva negli Stati Uniti e tre anni dopo si arruola per andare a combattere la sporca guerra. Quando torna è ovviamente segnato dall’esperienza e una serie di eventi, tra cui il padre che ha abbandonato la famiglia tornando in Italia, lo spingono a mettere un fucile in una borsa, salire su un aereo e dirottarlo per farsi portare in Italia. Infascelli racconta la storia con trasporto e partecipazione, facendo entrare lo spettatore nel mondo, bizzarro all’inizio e progressivamente molto oscuro, di un uomo che ha guardato l’abisso più di una volta.

Kill Me if you can: trailer del documentario di Alex Infascelli

Alex, il documentario è cinema purissimo, per te che nasci regista di generi è la scelta più naturale del mondo. Ma com’è nato questo amore che ha portato già tre film?
In realtà, come nelle migliori tradizioni, le cose capitano un po’ per caso, le chiamate non sono mai così nette come vorremmo. Sono successe due cose. Fondamentale è stata la mia consapevolezza che il cinema nel 2010, ma già nel 2006, soffriva di una stanchezza del pubblico rispetto a certi prodotti che erano ripetizione di sé stessi. E questa cosa veniva dalla distribuzione e dagli esercenti che erano completamente miopi rispetto a quello che pubblico voleva. Infatti per questo girai H2Odio, prodotto con una piccola società che avevo fatto con Lorenzo Mieli e distribuito solo in dvd in edicola con Repubblica. Vendette una quantità di copie impressionante, praticamente un Netflix ante litteram, e proprio per questo ci fermarono, perché all’epoca la sala era l’unico canale concepibile per il cinema, tant’è che io me ne allontanai e andai a condurre BrandNew su MTV. Paradossalmente al documentario mi ci porta ciò che più di tutto è cinema, ovvero Kubrick, grazie a un incontro con la vedova, Christine, per raccontare la storia di Emilio D’Alessandro, l’autista di Kubrick per trent’anni, per cui posso non chiedere il permesso a nessuno. Perché in forma di fiction sarebbe stato un film costosissimo, mentre un documentario era immediatamente accessibile, e di questa dimensione anarchica dell’autodafé mi sono innamorato e non l’ho più abbandonata. Vedo registi costretti a fare riunioni di sceneggiatura con quelli delle piattaforme che pensano ai loro algoritmi e alla vendibilità del prodotto. Ma li capisco anche i miei colleghi, però vorrei dire loro: “non avete idea della libertà che si prova a fare un documentario”. Perché la storia già c’è, nessuno può entrare nel merito. Quindi il mio amore per il documentario nasce da un atto di ribellione, di libertà. Mi è venuto da ridere dicendo questa cazzata, ma era questo che vedevo, una fila di miei colleghi con le catene ai piedi che passavano da un film all’altro con qualcuno che gli dice “questo non va più di moda, questo non si può dire, questo non si può raccontare in questo modo”. E quell’attore? Va di più, e poi bisogna prendere quell’attrice. Insomma, eravamo dei forzati del cinema, a tutti i livelli. Invece il documentario è fuori dai radar. Perché mentre la finzione è una navigazione strumentale, il documentario è a vela. Un giorno c’è vento, un giorno non c’è. E devi stare là a cazzare la randa sperando di andare avanti senza nessuno che ti dice dove sei e con la rotta inventata. C’è una mappa, è la storia originaria, quella del personaggio nel mio caso, all’interno della quale c’è libertà totale. Scusa, risposta lunghissima.

No, no, figurati, va benissimo così, alla fine anche un’intervista è un documentario. Parliamo di Kill Me If You Can, partendo dalla fine: a quanto di quello che ti ha raccontato Raffaele Minichiello hai creduto?
Eh. Ci ho creduto quanto? Ti dico la verità. Non è che non credo a quello che mi ha detto. Credo che lui si sia costruito una verità per la propria sopravvivenza. Come tutti noi, d’altronde, ognuno di noi si costruisce una verità che gli fa comodo, è una salvezza e comincia a vivere in base a quella verità che è tale perché nasce da un’invenzione. Per cui, quando Raffaele mi raccontava tutte quelle cose, credo che una parte di lui sia veramente onesta, mentre da un’altra parte ha dovuto fare i conti e occultare tutta un’altra serie di cose per poter sopravvivere. La mia indagine è proprio in questa dimensione, nei confronti di una persona in contatto con una parte profonda di sé.

Alex Infascelli (a destra) sul set con Raffaele Minichiello. Foto: Wanted Cinema

Ti sei ritrovato a raccontare nel giro di pochi anni due personaggi paradossalmente molto simili tra loro.
Esatto, perché Francesco alla fine si è raccontato tante cose e parto dal presupposto che mi voglio fidare, che mi piace perché tanto la verità non c’è. Partendo da questo assunto mi piace ascoltare chi ne ha una propria, importante come quella di Totti, appunto, quando raccontava la parte finale con Spalletti. Lo lasciavo andare a ruota libera e sembrava Shining, dentro di me pensavo “è ovvio che questa è la sua percezione, lui l’ha vissuta così”.

E quel dubbio crea un colpo di scena e trasformi il genere in un altro genere. In entrambi i film c’è molto di più, perché sia attraverso la storia di Francesco Totti che attraverso quella di Raffaele Minichiello racconti una parte importante di storia italiana, creando qui anche un giallo attraverso il mistero del suo incartamento sparito dagli archivi dell’FBI.
Il documentario è una domanda, mentre spesso il cinema tende a essere una risposta. Il giallo, tra l’altro, non è semplicemente il giallo di Raffaele che fa delle cose che poi occulta, o il giallo di Totti sul ritiro. Il giallo è anche sapere che qualcuno, io in questo caso, ha incontrato una persona, si è fatto raccontare una storia e l’ha dovuta raccontare. A un certo punto, quando ormai erano mesi e mesi che stavo al montaggio, viene fuori la storia del dossier sparito e mi chiedo come sia possibile che non esista. Allora io stesso scrivo all’FBI e loro confermano che non risulta niente nei loro archivi. Allora contatto nuovamente Pier Luigi Vercese, il giornalista dal cui libro, Il marine, è in parte basato il documentario. Non ci sentivamo da tempo e lui era ormai distante da tutta la storia, eppure mi dice che proprio tre mesi prima aveva riascoltato le registrazioni delle sue conversazioni con Raffaele e si era accorto di questa cosa. E così ho deciso di inserire il giallo, ma di metterlo alla fine, perché se l’avessi messo all’inizio sarebbe stato un altro film. L’ho messo quando quel colpo di scena è arrivato a me, quando stavo andando verso un finale che contemplava la ricerca di Tracey, l’assistente di volo che era rimasta sull’aereo e che poi è venuta a Roma a testimoniare.

Ecco, mi hai anticipato, volevo chiederti proprio di lei: siete riusciti a trovarla alla fine?
Un investigatore privato ha fatto indagini per tre mesi e purtroppo è morta nel 2018. Ed è incredibile che tu sia l’unico che mi ha fatto questa domanda da quando il film è stato presentato ormai mesi fa, questa cosa è molto interessante. Ho sperato che fosse viva, perché mi sarebbe piaciuto farli incontrare. Raffaele mese dopo mese mi chiedeva se l’avessimo trovata, e quando sono dovuto andare da lui a dirglielo lo ha capito dalla mia faccia ed è scoppiato a piangere. E la cosa incredibile è che quando ho parlato con la figlia di Tracey, mi ha detto che la madre per cinquant’anni ha cercato Raffaele, dicendole che se avesse vissuto la sua vita accanto a Raffaele Minichiello quella vita sarebbe stata migliore. Quindi questi due si sono amati per cinquant’anni. E oggi la figlia di Tracey e Raffaele si parlano, si scrivono. Si chiama Krysta, mentre il primogenito di Raffaele si chiama Cristiano, e sono nati lo stesso anno. Ma tutta la storia di Raffaele ha dei risvolti stranissimi. Nel 1985 andai ad abitare con la mia famiglia sulla Cassia e per andare a scuola prendevo un autobus che passava per Corso Francia, dove aveva aperto il primo negozio di skate e surf di Roma, ci andavo con gli amici, ho ancora una felpa comprata lì. E chi era il proprietario? Raffaele. Qualche giorno fa un mio amico mi ha mandato una foto di me e Raffaele fatta a casa mia con gli skate appena comprati da lui. E io questa cosa l’ho scoperta chiacchierando con Raffaele. Surreale, qui si va oltre il rapporto regista-storia-protagonista, qui c’è una tessitura karmica che ha fatto sì che io, quarant’anni dopo, mi ritrovassi a raccontare la storia di questo signore. David Nerattini, che è il fondatore de La Batteria, che ha composto la colonna sonora del film, un giorno è venuto in sala montaggio e guardando delle immagini a un certo punto dice “ma quella è la mia scuola!”. Il documentario è un mondo magico, mi sento un rabdomante quando scelgo le storie.

Raffaele Minichiello ai tempi del suo arresto. Foto: Wanted Cinema

Fai venire in mente un sacco di cose pure a me, sono cresciuto a Corso Francia in quegli anni e avrò fatto miscela al motorino al distributore di Raffaele 100 volte, questa storia del karma ci coinvolge entrambi. D’altronde tu hai scelto tre personaggi larger than life, storie impossibili da non raccontare che poi diventano anche parte di te, è un’osmosi da cui è difficile liberarsi.
Non puoi, fa parte del mio tessuto esperienziale, sono incontri con uomini straordinari che metto in scena nel modo che so; ma è anche vero, e non prenderla come una cosa autoreferenziale, che alla fine il documentario che faccio da sempre è quello sulla mia vita.

È chiarissimo, invece, perché quando incontri queste storie per te si aziona un processo vampiresco che serve a nutrire te stesso come artista.
Come artista e come essere umano. Il primo incontro con il personaggio è quasi una cosa intima, poi dopo torno con la troupe. Anche se per me il momento più importante è il montaggio, è lì che creo la storia. in realtà giro pochissimo e quello che giro è la documentazione di un incontro, di Alex che incontra Francesco o Raffaele.

È una forma diversa di documentario, non impatta sulle formule usuali, comunque ti sei fatto tre anni di ricerche in cui hai trovato ciò che nessuno riusciva a trovare. Quello è il documentario, e poi chiudersi in sala di montaggio per un anno fin quando non trovi la quadra. Che tu lo faccia mettendo in gioco te stesso, oltre ai ai personaggi che incontri, è ininfluente. Conta la storia che porti agli spettatori. E a proposito di storie, sono un estimatore dei tuoi primi film, in particolare Il siero della vanità, anche con tutti i suoi difetti, perché ne ha, dopo vent’anni te lo posso dire, ma sembra girato tre giorni fa, con uno stile che oggi tutti copiano o inseguono e quando lo facevi tu sembravi il matto del villaggio. E oltre te c’erano altri giovani registi di genere, penso a Eros Puglielli per esempio. All’epoca non vi hanno capito, mentre oggi sareste portati in palmo di mano dalle piattaforme di cui parlavamo prima e con cui probabilmente non vorresti avere niente a che fare.
A me devo dire che neanche mi cagano, così come non mi ha mai filato la pubblicità, con cui molti miei colleghi sono sopravvissuti o addirittura si sono crogiolati, perché c’erano veramente tanti soldi che oggi non ci sono più. Poi sono arrivate le serie, di cui sono un grande estimatore e amante, ma quando è arrivato il boom anche in Italia io mi sono messo a fare documentari. Quindi sono uscito da quel campionato completamente. Mi piace pensare che oggi il cinema sia poesia e la serialità grande letteratura, con cui raccontare storie di ampio respiro, da Ágota Kristóf a Stephen King. Purtroppo nella maggior parte dei casi sono dei romanzacci brutti, quelli estivi che poi lasci sotto l’ombrellone.