‘Jeanne Dielman’ non è il miglior film di tutti i tempi, ma va bene così | Rolling Stone Italia
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‘Jeanne Dielman’ non è il miglior film di tutti i tempi, ma va bene così

La classifica definitiva di ‘Sight and Sound’, stilata ogni dieci anni, mette ‘Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles’ di Chantal Akerman al primo posto. È giusto? È sbagliato? Sì, no, boh. È solo che il cinema è diventato una pippa per pochi. O forse è sempre stato così

‘Jeanne Dielman’ non è il miglior film di tutti i tempi, ma va bene così

Delphine Seyrig in ‘Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles’ di Chantal Akerman

Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles è il miglior film di tutti i tempi. Lo ho stabilito la classifica che Sight and Sound pubblica ogni dieci anni, e che a questo giro vede il film di Chantal Akerman, anno 1975, scalzare storici vincitori come Quarto potere (ora terzo) e La donna che visse due volte (secondo). Ma la prima frase è, inevitabilmente, pure una domanda: Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles è il miglior film di tutti i tempi? Probabilmente no, perché nessuna classifica è attendibile, figurarsi queste così definitive.

Negli anni son cambiati i criteri, i votanti, le scelte e dunque i simboli che, per forza di cose, si portano dietro. «Le registe donne, ovviamente, sono sempre state meno», si legge su Sight and Sound, «e i critici sono sempre stati, ovviamente, perlopiù maschi. È stato quando, nel 2012, Sight and Sound ha ampliato il suo bacino di critici che Jeanne Dielman è entrato per la prima volta nella lista, in 35esima posizione. La sua scalata fino alla vetta è un trionfo per il cinema femminile».

Avevo visto Jeanne Dielman a vent’anni, quand’ero un nerd da cinemini; l’ho rivisto l’altro giorno dopo il verdetto del British Film Institute perché so ancora essere abbastanza nerd (ma da divano), e per confermare la famigerata prova del tempo era stata superata. Direi che l’ha fatto grandemente. Le inquadrature fisse che una volta erano avant-garde (sempre parole della scheda che motiva la medaglia d’oro) e che oggi sono, per molti (troppi), la norma; la tre ore e venti (altra prassi, ahinoi, di questi tempi digitalizzati e serializzati) in cui apparentemente non accade nulla, e che invece irradiano una gran tensione; il rigore (qualunque cosa significhi), la cinefilia (idem), il punto di vista.

Jeanne Dielman - Veal Cutlets

Quest’ultimo dato è evidente, ed è ciò che fa imporre il film sui concorrenti. Lo sguardo è femminile e femminista, il ritratto della casalinga vedova che cucina (meravigliose le sequenze con Delphine Seyrig che prepara il caffè, mette a bollire le patate, impana cotolette) e si prostituisce part-time per racimolare qualche soldo in più e mandare avanti la casa e gli studi del figlio adolescente è sensibile senza sensazione, militante senza proclami. È ovvio che premiare Jeanne Dielman significa premiare un cinema finora sommerso (o considerato tale), cambiare il metro di giudizio, proporre un nuovo canone.

Ma la questione sollevata dalla classifica di Sight and Sound mi pare un’altra: il cinema, oggi, ha smesso di essere un’arte popolare. O meglio: si tende a premiare sempre e solo il merito artistico di un mezzo che certamente come arte non era nato. La formula perfetta di David Thomson è il più bel libro sul cinema che possiate leggere quest’anno (è del 2004, ma Adelphi l’ha appena tradotto e pubblicato). È “una storia di Hollywood”, come dice il sottotitolo; una storia (anche) criminale, fiscale, soprattutto sociale. Il cinema, quando s’è radicato come massima forma d’intrattenimento presso il grande pubblico (diciamo tra gli anni ’10 e ’20 del secolo passato), era tutto fuorché arte. Era l’unico modo, per platee per la più parte analfabete, di recepire una storia, vera o finta che fosse: coi giornali e i romanzi non lo potevano fare. Persino i cartelli dei film muti spesso, nei pidocchietti degli albori, venivano recitati, perché la maggioranza degli spettatori non era in grado di leggerli.

Salto tutta la storia successiva (leggetevi il libro), supero gli anni della Hollywood gloriosamente popolare, dei grandi generi, dei divi, eccetera, e arrivo a oggi. Oggi che il cinema è diventato un discorso per pochi, un atto sempre nostalgico (com’è bella l’esperienza della sala!, si sente ripetere nell’epoca delle sale disertate dagli stessi cinefili, o quel che ne resta), un tema di posizionamento più che d’intrattenimento. Il cinema è diventato arte, e come tale è materia per pippe d’élite.

Mi ci metto anch’io – nerd, fanatico, passatista – che dentro la mia bolla sempre più piccola, a volte persino solitaria, col mio zapping su MUBI e le mie liste di visioni da fare, da recuperare, ma da non condividere più con nessuno. Il cinema come arte (pardon) popolare mi pare diventato la forma ultima dell’onanismo, a volte con deriva social di finta condivisione, ma in definitiva uno sport da giocare da soli, a interrogarsi su Chantal Akerman oggi e chissà quale altra regista domani (io, nella mia intimissima masturbazione, trovo più inquietante Claire Denis al settimo posto della classifica ma, appunto, so’ cazzi miei).

"Sr." | Robert Downey Jr. | Official Trailer | Netflix

È appena arrivato su Netflix “Sr.”, il bellissimo documentario di Chris Smith che è il ritratto di Robert Downey Sr., regista sperimentalissimo (avant-garde?) esploso nella New York 60s e padre di Robert Downey Jr. È, il film, anche il confronto tra i due: l’autore mai piegato alle regole degli Studios e l’attore ex ribelle diventato il divo più pagato al mondo grazie ai colossi Marvel. È un film umanamente magnifico, ma anche la definitiva ammissione di sconfitta del cinema come arte (scusate ancora) davvero popolare. Forse non lo è stata mai. Forse il cinema è sempre stato una vasta prateria con dentro tutto, troppo, fatta per feticisti che non saranno mai d’accordo gli uni con gli altri.

Non so cosa voterei, nella mia classifica definitiva. Certo, su cento titoli, ne metterei dieci di Woody Allen (in questa di Sight and Sound manco uno, sempre a proposito di cose che oggi si possono o non si possono fare: vergognatevi moltissimo). Ne piazzerei venti di Rohmer, ne sceglierei altri di Agnès Varda, e comunque chi se ne frega. Jeanne Dielman, per motivi che non vi sto a dire, forse lo terrei, o forse no. Ma adesso vado a farmi le pippe in silenzio, tanto la formula perfetta non la scoprirà mai nessuno, figuriamoci se mi ci voglio mettere io adesso.